PERCHÉ DICIAMO LA MESSA IN LATINO,
di don Francesco Ricossa
“Domenica 7 marzo, Paolo VI ha celebrato
la Messa vespertina nella chiesa di Ognissanti, in italiano” (1). In
quel giorno, prima domenica di Quaresima del1965, per la prima volta, la
Messa non era più celebrata in latino, ma in lingua volgare.
Commenta Mons. Bugnini, principale
artefice della riforma liturgica: “Quel 7 marzo divenne una data storica
della riforma liturgica ed una sua pietra miliare. Era un p- rimo
frutto tangibile del Concilio ancora in pieno svolgimento, l’inizio di
un processo di accostamento della liturgia alle assemblee partecipanti,
del suo cambiamento di aspetto, dopo secoli di intangibile uniformità”
(2).
Fu solo, quattro anni dopo, il 30
novembre 1969, prima domenica d’Avvento, che fu introdotto un nuovo rito
(Novus Ordo Missæ), “impressionante allontanamento dalla teologia
cattolica della santa Messa” (3) per i Cardinali Ottaviani e Bacci,
“ammirazione delle altre chiese e comunità cristiane”, per Mons.
Bugnini… (4).
Molti pensano ingenuamente che il nuovo
rito, quello di Paolo VI, sia semplicemente la traduzione in lingua
volgare di quello precedente.
Si tratta in realtà di due testi quasi
totalmente diversi: la Messa codificata da S. Pio V (5) è il risultato
dell’evoluzione e del continuo arricchimento del rito romano, dai tempi
delle catacombe fino ad oggi; il rito di Paolo VI è stato invece creato a
tavolino dai liturgisti del “Consilium ad exequendam constitutionem de
Sacra Liturgia” in collaborazione con i rappresentanti delle “chiese”
protestanti (6), nello spirito ecumenista del Vaticano II.
Alcuni movimenti di salvaguardia del
latino e del canto gregoriano, pur perfettamente consci della diversità
esistente tra rito tradizionale tradotto e rito moderno (modernista), si
accontentarono di difendere l’uso della lingua latina nella liturgia,
chiedendo ed ottenendo (raramente) delle Messe in latino, magari col
nuovo rito.
Di fronte a questa attitudine, i veri
fedeli della tradizione reagirono violentemente. Fu il povero Don
Bellucco, ad esempio, che, pur essendo eccellente latinista, fece notare
come si potesse bestemmiare anche in latino… Della “Messa” di Paolo VI
in latino non sappiamo cosa farcene.
Per sottolineare vieppiù questo rifiuto e
questa giusta reazione, alcuni utilizzano frasi paradossali, del
genere: “preferisco la Messa di S. Pio V in bantù, che la nuova Messa in
latino”. L’espressione fa il suo effetto, ma è un po’ infelice; se poi
si giunge a dire che non ha nessuna importanza il fatto che la Messa (e
gli altri riti liturgici) siano celebrati in latino o in volgare, si va
(inconsapevolmente?) contro la legge e l’insegnamento della Chiesa. Ha
dichiarato, infatti, Pio XII: “Sarebbe tuttavia superfluo il ricordare
ancora una volta che la Chiesa ha serie ragioni per conservare
fermamente nel rito latino (7) l’obbligo per il sacerdote celebrante di
usare la lingua latina, come pure di esigere, quando il canto gregoriano
accompagna il Santo Sacrificio, che questo si eseguisca nella lingua
della Chiesa” (8).
Vediamo pertanto assieme quali sono le serie ragioni di cui parla Pio XII.
I. Necessità di una lingua sacra
Non esiste religione che non distingua
ciò che è sacro da ciò che è profano. Ciò che è sacro è, per l’appunto,
consacrato a Dio, riservato a Lui, e sottratto, di conseguenza, all’uso
profano. Nel culto divino, specialmente, vi sono luoghi sacri (le
chiese), riti sacri, oggetti sacri, paramenti sacri. La lingua non fa
eccezione. Già “in seno al paganesimo, gli antichi romani avevano capito
l’immobilità della preghiera pubblica. Quintiliano ci informa che i
versetti cantati dai sacerdoti sàlii risalivano ad una così alta
antichità che li si capiva con difficoltà, e tuttavia la maestà della
religione non aveva permesso che fossero cambiati. Abbiamo visto che gli
ebrei, prima del cristianesimo, nelle loro assemblee religiose,
leggevano la legge e le preghiere del culto in lingua ebraica, benché
questa lingua non fosse più capita dal popolo. Non è forse rifiutare
l’evidenza – conclude Dom Guéranger, abate di Solesmes – non
riconoscere, in tutti questi fatti l’espressione di una legge di natura
in accordo col genio della religione?” (9).
Le religioni pagane, come la Religione
rivelata dell’antico testamento, si sono comportate come farà in seguito
la Chiesa Cattolica: hanno utilizzato nella liturgia una lingua sacra,
ritirata dall’uso profano, immutabile. La storia delle chiese orientali
(generalmente scismatiche) che hanno seguito piuttosto l’uso della
lingua volgare nella liturgia, non smentisce la nostra affermazione ma,
piuttosto, la conferma involontariamente.
Difatti, pur non adottando, come la
Chiesa di rito latino, il principio della lingua sacra, le Chiese
orientali hanno subìto il medesimo, universale fenomeno della
sacralizzazione della lingua liturgica. La lingua copta, l’armena,
l’etiopica, la slavonica “appena hanno sentito il contatto dei misteri
dell’altare, sono diventate immobili ed imperiture” (9) per cui, anche
le Chiese orientali “celebrano, al pari di noi, il servizio divino in
una lingua che non è più capita dal popolo” (9). Al contatto
dell’altare, queste lingue si sono “sacralizzate”.
Appare pertanto evidente che sopprimere
l’uso di una lingua sacra dalla liturgia equivale a profanarla, andando
in questo modo contro la natura e l’indole stessa della religione.
II. La provvidenza ha preparato per la Chiesa tre lingue sacre
Ma non tutte le lingue sono egualmente sacre.
Sempre Dom Guéranger, autorità
indiscussa in campo liturgico, constata, al seguito dei Padri della
Chiesa e dei mistici medioevali, l’esistenza di “lingue sacre e separate
dalle altre da una scelta divina, per servire da intermediario tra il
Cielo e la terra” (10).
Se è indubitabile il fatto che la Chiesa
abbraccia ed accoglie tutti i popoli, è altrettanto certo che la
Provvidenza ha voluto prima rivelarsi al solo popolo ebraico, per poi
fissare la sede del vicario di Cristo nella città di Roma. Il
cristianesimo, per libera scelta di Dio, è erede della tradizione
ebraica, greca e latina.
Così, pure, scriveva già nel IV secolo
sant’Ilario di Poitiers “è principalmente in queste tre lingue (ebraica,
greca e latina) che il mistero della volontà di Dio è manifestato; ed
il ministero di Pilato fu di scrivere anticipatamente in queste tre
lingue che il Signore Gesù Cristo è il Re dei Giudei” (10). Ebraico
(siriaco), greco e latino sono le tre lingue dell’iscrizione della
Croce; sono altresì le tre lingue della Sacra Scrittura; “sono state le
sole di cui ci si sia serviti all’altare” nei primi quattro secoli (11)
“il che dona loro una dignità liturgica particolarissima e conferma
meravigliosamente il principio delle lingue sacre e non volgari nella
liturgia” (11).
Che sia il latino pertanto una “lingua
sacra” è cosa così indubitabile che persino Paolo VI, il giorno stesso
in cui lo eliminava dalla liturgia, lo ha esplicitamente riconosciuto
(17 marzo 1965) (1). Sapeva quindi, eliminando il Sacro, di fare
un’opera di profanazione.
III. Il latino unisce alla Chiesa di Roma
“La lingua propria della Chiesa Romana è la latina” (S. Pio X, Tra le sollicitudini, 22/11/1903) (12)
“Gesù Cristo scelse per sé e consacrò la
sola città romana. È qui che volle restasse in perpetuo la sede del suo
Vicario” (Leone XIII) (13). Non a caso, quindi, ma per “mirabile
disposizione di Cristo” (Papa Gelasio) (14), san Pietro scelse Roma come
sede episcopale del Principe degli Apostoli. La Chiesa è dunque Romana.
La provvidenza che ha scelto Roma, ha
scelto anche per la Chiesa la sua lingua, la lingua latina. “Il Signore –
disse il cardinal Ottaviani – ha dato un mezzo provvidenziale per
mantenere la tradizione e la verità Cattolica; le ha fornito un
linguaggio che è tutto spe- ciale, la lingua latina. Il destino di Roma
(…) era anche preparato con un elemento che sembrerebbe accidentale ma
che è importantissimo: una lingua, la lingua latina…” (15).
L’uso della lingua latina unisce quindi
le diocesi che ne fanno uso, nel mondo intero, alla Chiesa Romana ed
alla sede dell’Apostolo Pietro.
Certo l’uso della lingua latina non è
obbligatorio per tutta la Chiesa Universale, ma solo per quella
occidentale: le Chiese orientali cattoliche manifestano altrimenti che
col latino il loro legame con Roma.
Tuttavia, vi è un fatto indiscutibile
che emerge dalla storia dello scisma orientale. Le nazioni slave ove era
stata adottata la lingua slava nella liturgia, seguirono quasi
completamente lo scisma. Al contrario, le nazioni slave che conservarono
la lingua latina, restarono unite a Roma (Cecoslovacchia, Croazia,
Slavonia e, soprattutto, la Polonia). Per questo Dom Guéranger elogia
l’azione di papa san Gregorio VII al proposito: « Il duca di Boemia,
Vratislao, gli aveva chiesto di poter estendere ai suoi popoli,
anch’essi di razza slava, la dispensa che Giovanni VII aveva accordato
per la Moravia. Gregorio rifiutò con fermezza e, senza accusare il suo
predecessore, né ritornare su di un fatto compiuto, proclamò i princìpi
della Chiesa sulle lingue liturgiche: “Quanto a ciò che avete chiesto –
scrisse a questo prìncipe in una lettera del- l’anno 1080 – desiderando
il nostro consenso per fare celebrare nel vostro paese l’ufficio divino
in lingua slava, sappiate che non possiamo accedere in alcun modo alla
vostra do- manda. (…) Non è una scusa dire che alcuni uomini religiosi
(S. Cirillo e S. Metodio) hanno subìto con condiscendenza i desideri di
un popolo semplice, o non hanno giudicato a proposito portarvi rimedio;
la Chiesa primitiva stessa ha dissimulato molte cose che i santi Padri
hanno corretto dopo averle sottomesse ad un serio esame. Per cui, con
l’autorità del Beato Pietro, vi proibiamo di mettere in pratica quanto
ci domandano i vostri con imprudenza e, per l’onore di Dio onnipotente
vi ingiungiamo di opporvi con tutte le vostre forze, a questa vana
temerità”. In poche parole, san Gregorio VII enunciava con piena energia
il pensiero della Chiesa, che è sempre stato quello di non esporre il
mistero senza veli agli occhi del volgo; scusava la concessione fatta
prima di lui e proclamava quel principio, così frequentemente applicato,
che le necessità che si sono presentate agli inizi della Chiesa non
possono prudentemente di- ventare una legge per i secoli seguenti…
La fede cristiana regnava in Boemia; vi
si era stabilita e mantenuta con la liturgia latina; introdurre in
questa Chiesa l’uso della lingua volgare equivaleva a farla
indietreggiare alle condizioni dell’infanzia.
Spingendo le frontiere della lingua
latina fino alla Boemia, san Gregorio VII la faceva avanzare fino alla
Polonia, la quale, restando latina, veniva consacrata come baluardo
cattolico dell’Europa verso l’Asia » (16).
La pseudo-riforma protestante
confermerà, come vedremo, il medesimo principio: l’abbandono della
comunione con Roma coinciderà con la sostituzione, nel culto
protestante, del latino con la lingua nazionale.
IV. Una lingua universale per la Chiesa Universale
All’argomento fondato sul fatto che la
Chiesa è romana, è strettamente collegato quello fondato
sull’universalità della Chiesa. Scrive Romano Amerio: “In primo luogo
adunque la Chiesa è universale, e l’universalità sua non è puramente
geografica né consiste, come si dice nel nuovo canone, nell’essere
diffusa su tutta la terra. È un’universalità derivante dalla vocazione,
tutti gli uomini essendo vocati, e del suo nesso col Cristo che stringe e
aduna in sé tutto il genere umano. (…) Essa (…) non può accettare
l’idioma di una gente particolare, sfavorendo le altre” (17).
“La Chiesa – scrisse Pio XI –
abbracciando nel suo seno tutte le nazioni (…) esige per la sua stessa
natura una lingua universale…” (Ep. Ap. Officiorum Omnium, 1 agosto
1922. AAS. 14, 1922, 452).
Per questo la lingua latina può essere
veramente chiamata “cattolica” (che vuol dire uni- versale) secondo
l’espressione dello stesso Pio XI nel documento citato (AAS. 14, 1922,
452).
Al contrario, lo scisma orientale e la
pseudo-riforma protestante, rompendo l’unità cattolica, hanno creato
“chiese” autocefale e nazionali. E come la Chiesa Cattolica esige “per
sua natura” una lingua universale, così le “chiese” nazionali, per
propria natura, adottano la lingua nazionale, come si constata presso
gli “ortodossi”, i protestanti ed i settari del Vaticano II.
V. Una lingua “una” per una Chiesa “una”
La Chiesa è una: “Et unam, Sanctam,
Catholicam, et apostolicam Ecclesiam”. La sua unità è strettamente
collegata alla sua universalità (“cattolica”), ed il centro di questa
unità è la sede di Pietro, Vescovo di Roma. La lingua latina, universale
e romana, è pertanto vincolo di unità. Lo attesta Pio XII: “L’uso della
lingua latina, come vige nella gran parte della Chiesa, è un chiaro e
nobile segno di unità” (Enciclica Mediator Dei, 20/XI/ 1947) (18). Al
contrario, l’adozione della lingua nazionale nella liturgia è spesso
fonte di scontro e di divisione tra i popoli; è l’elemento disgregatore
non solo a livello religioso ma anche a livello civile. Basti pensare a
quei paesi divisi da conflitti etnici, nei quali i fedeli cattolici un
tempo tutti uniti intorno all’altare, assistono al culto in chiese
diverse, secondo la lingua che è utilizzata.
Un caso recentissimo è quello di
Trieste, ove alcuni hanno protestato contro l’introduzione dello slavo a
fianco dell’italiano nel culto presieduto da Giovanni Paolo II durante
la visita a questa città. L’altare univa, il tavolo (liturgico) divide.
Se così è nella società civile, il fenomeno è più grave in quella
religiosa.
Non solo la pseudo-riforma protestante ha fatto nascere delle “chiese nazionali” divise tra loro nel dogma e nella disciplina
come nella lingua liturgica: anche la
pseudo- riforma del Vaticano II ha intaccato la mirabile unità
dogmatica, disciplinare e liturgica propria alla vera Chiesa Cattolica.
Ogni paese stretto intorno alla propria
conferenza episcopale (spesso riottosa nei confronti del “centro”),
celebra ormai la liturgia in una lingua estranea a quella degli altri
paesi e a quella di Roma stessa.
In molti di questi paesi, in Africa, in
America latina, in Asia, “l’inculturazione” voluta dal Vaticano II ha
immesso nel culto elementi pagani che la predicazione del Vangelo aveva
fatto scomparire. Ovunque, anche a livello liturgico, si assiste al
medesimo fenomeno di disgregazione dell’unità che caratterizza sempre lo
scisma e l’eresia. L’abolizione del latino è certo stata “una pietra
miliare” (Bugnini) verso questo processo di disgregazione dell’unità. La
confusione delle lingue decretata da Dio per punire l’orgoglio degli
uomini nel costruire la torre di Babele, era come sanata dall’uso del
latino, la “lingua cattolica”, nella Chiesa di Cristo. Oggi, l’orgoglio
della “chiesa conciliare” che ha proclamato “il culto dell’uomo” (Paolo
VI) è stato castigato nuovamente (an- che) con la confusione delle
lingue, confusione che, parafrasando Pio XII, potremmo chiamare
“mirabile segno di disunità”.
VI. Una lingua immutabile per una Chiesa immutabile
Riprendiamo la citazione di Pio XI:
“difatti la Chiesa abbracciando nel suo seno tutte le nazioni, ed
essendo destinata a durare sino alla fine dei secoli, esige per la sua
stessa natura una lingua universale, immutabile, non popolare”
(Officiorum Omnium). Commenta Romano Amerio: “In secondo luogo la Chiesa
è, nella sua sostanza, immutabile e perciò essa si esprime con una
lingua in qualche modo immutabile, sottratta (relativamente, e più di
ogni altra) all’alterazione delle lingue usuali, alterazione così celere
che tutti gli idiomi europei oggi parlati hanno bisogno di glossari per
poter intendere le opere letterarie dei propri primordi. La Chiesa ha
bisogno invece di una lingua che risponda alla sua condizione
intemporale e sia priva di dimensione diacronica…” (17).
Il latino, specialmente liturgico, è per
l’appunto una lingua, per quanto possibile immutabile. Risponde così
alle esigenze di una lingua sacra (vedi quanto detto precedentemente).
Di più è segno dell’eternità partecipata della Chiesa e della
irreformabilità del suo insegnamento. Ha infine, un duplice vantaggio
pratico: il primo, segnalato dall’Amerio, è quello di sfuggire alle
continue revisioni indispensabili per le lingue vive, le quali, dopo
qualche decennio diventano se non incomprensibili, almeno antiquate.
Il secondo, ben più importante, è
segnalato ancora da Pio XII: “L’uso della lingua latina (…) – egli dice –
è… un efficace antidoto ad ogni corruttela della pura dottrina” (18).
Il proverbio stesso lo ricorda: “traduttore, traditore”. Anche
involontariamente, una traduzione de- forma più o meno il testo
tradotto. Quanto più se il traduttore è animato dall’intenzione di
deformare. J. Renié (Missale Romanum et missel romain, Paris 1975),
Romano Amerio (Iota unum, Milano – Napoli 1985. nn. 280-282, pp.520-525)
e molti altri, hanno provato che il “nuovo messale” nelle lingue
volgari deforma il già eterodosso “Missale romanum” riforma- to da Paolo
VI, fino ad alterare la stessa formula di consacrazione (“pro multis”
che diventa “per tutti”) (18 bis).
VII. La lingua nobile ed eletta
Pio XI (ripreso punto per punto da
Giovanni XXIII nella Cost. Ap. Veterum sapientia, del 23 febbraio 1962)
(19) afferma infine che “la Chiesa… esige per sua natura una lingua… non
popolare (non volgare)” (Ep. Ap. Officiorum Omnium). “Siccome poi la
Chiesa Cattolica, perché fondata da Cristo Signore supera di gran lunga
in dignità tutte le società umane, è giusto che non si serva di una
lingua popolare, bensì nobile ed augusta” (Giovanni XXIII, ibid.). Vi è
una lingua per ogni luogo e situazione: il lessico famigliare non è il
linguaggio giuridico, il gergo di un gruppo sociale o il colorito
dialetto non è usato in riunioni accademiche… non si vede perché solo il
rito sacro per eccellenza non abbia diritto ad una lingua sua propria
che, per l’eccellenza divina dei misteri che si celebrano, deve essere
nobile e regale, quale la lingua latina e quale il canto gregoriano,
impraticabile senza questa medesima lingua.
VIII. Le obiezioni confermano la tesi: l’altare ed il pulpito
Si obietta: “Se la Messa è detta in latino, il popolo non capisce. È molto meglio adesso, che si capisce tutto”.
È il pretesto invocato dagli autori
della riforma liturgica per eliminare l’uso del latino non solo dalla
liturgia della Messa, ma persino dalla recita privata o corale
dell’ufficio divino. Analogamente, sono state soppresse dalla liturgia
della Messa le rubriche che imponevano la recita a voce bassa delle
parti più importanti della liturgia, come l’Offertorio ed il Canone,
incluse le formule della Consacrazione (20). Tutto deve essere udibile
(no alle preghiere segrete) tutto deve essere comprensibile (no alle
preghiere in latino). In realtà il problema non consiste nel dilemma:
udire – non udire, capire – non capire (tanto più che i messalini,
traduzioni ecc. ovviano abbondantemente al “problema”) ma, piuttosto,
nella diversa concezione della Messa che è sottintesa dal nuovo e
dall’antico “Ordo Missæ”.
Nessuno ignora che, nella concezione
protestante, il culto è essenzialmente predicazione, insegnamento,
lettura della Scrittura. È evidente, pertanto, l’esigenza di parole
udibili e facilmente comprensibili.
Per la Chiesa Cattolica invece, la
Messa, pur non mancando di un aspetto istruttivo, è essenzialmente il
Santo Sacrificio offerto a Dio sull’altare. Offerto a Dio, esso non
necessita, come il culto protestante, di essere sempre ed innanzitutto,
pienamente udibile e comprensibile dai fedeli.
Per questo il Concilio di Trento insegna
che la Messa non deve essere celebrata in volgare, ma che quanto si è
letto in essa deve essere spiegato ai fedeli nella predicazione,
specialmente la domenica e nei giorni festivi (cfr. Sess. XXII, Cap.
VIII). Commenta Dom Guéranger: “È necessario, a questo punto, fare una
distinzione capitale: la distinzione tra il pulpito e l’altare.
Sul pulpito, la lingua volgare è
indispensabile; sull’altare se ne può fare a meno, anche agli inizi di
una cristianità, come è comprovato da fatti innumerevoli” (21). «Il
protestantesimo ha distrutto la religione abolendo il sacrificio, per
esso l’altare non esiste più; non c’è più che una tavola; il suo
cristianesimo si è conservato unicamente nel pulpito.
La Chiesa Cattolica, senza dubbio, si
gloria della Cattedra di verità, poiché “la fede viene dall’udito” (Rom.
X, 17). Dall’alto di questa Cattedra essa proclama la dottrina
immutabile e vittoriosa, nella lingua del popolo che l’ascolta; ma la
sua missione non è unicamente d’istruire questo popolo. Se gli rivela le
verità divine, è per unirlo a Dio mediante i misteri dell’altare; dopo
aver illuminato la sua fede, lo mette in comunicazione con Dio mediante
l’amore.
Quando ha fatto nascere in lui il
desiderio del bene infinito, in presenza del quale non c’è né saggio né
ignorante, risale, come Mosè, sulla Montagna, e la sua voce cessa di
farsi udire dalle orecchie, per non risuonare più che nei cuori” (22)».
IX. Le obiezioni confermano la tesi: le letture bibliche in lingua volgare
Almeno, si dice, bisognerebbe leggere
sempre le letture bibliche (Epistola, Vangelo) in lingua volgare; esse
fanno parte, difatti, della parte della Messa dedicata all’istruzione
dei fedeli.
Questo argomento fa breccia persino tra i
tradizionalisti: sono moltissime le Messe durante le quali le letture
sono fatte esclusivamente in lingua volgare, adottando in questo la
riforma di Paolo VI, ed io stesso ricordo le pressioni e le insistenze
di Mons. Lefebvre perché anche in Italia adottassimo questo uso. Dom
Guéranger, fedele difensore della liturgia cattolica, non era del
medesimo parere: per lui, uno degli inconvenienti della recita a voce
alta del canone era quello di aprire le porte alla lettura in volgare
della Bibbia: “se si leggeva il canone a voce alta, il popolo avrebbe
chiesto che lo [si] leggesse in francese; se la liturgia e la Sacra
Scrittura si leggevano in lingua volgare, il popolo sarebbe diventato
giudice dell’insegnamento della Fede sulle questioni controverse…” (23).
Le parole di Dom Guéranger possono stupire o, peggio ancora
scandalizzare, solo il cattolico ignaro della propria religione. L’abate
di Solesmes, infatti non fa che ripetere la dottrina della Chiesa in
proposito.
Infatti la quarta regola dell’Indice dei
libri proibiti, publicata su ordine del Concilio di Trento, recita:
“Poiché è evidente con l’esperienza, che se si permette la Sacra Bibbia
in lingua volgare senza le debite precauzioni, essa diventa, a causa
della temerarietà degli uomini, più dannosa che utile; ci si attenga, a
questo proposito, al giudizio del Vescovo o dell’Inquisitore, in modo
tale che si possa concedere, col consiglio del parroco o del confessore,
la lettura della Bibbia tradotta in volgare da dei cattolici, solo a
coloro i quali saranno riconosciuti capaci di ricevere da questa lettura
un aumento della Fede e della devozione, e non un danno, e questo
permesso deve essere messo per iscritto.
Chi invece presumesse tenere presso di
sè o leggere [la Bibbia in volgare] senza questa facoltà, non potrà
essere assolto dai peccati se prima non ha consegnato la Bibbia
all’ordinario…”.
Sono queste precauzioni del Concilio di
Trento che provocarono le tesi dell’oratoriano Quesnel (1634-1719),
settatore dell’eresia giansenista. Ecco la tesi del Quesnel sulla
lettura della Bibbia, condannate da papa Clemente XI nella Costituzione
dogmatica “Unigenitus” (8 sett. 1713):
« 79° tesi: È utile e necessario in
tutti i tempi, in ogni luogo e per ogni genere di persona, studiare e
conoscere lo spirito, la pietà ed i misteri della Sacra Scrittura.
80°: La lettura della Sacra Scrittura è per tutti.
81°: L’oscurità santa della parola di Dio non è un motivo per i laici per dispensarsi dalla sua lettura.
82°: La domenica deve essere santificata
dai cristiani con le letture di devozione e soprattutto della Sacra
Scrittura. È dannoso volere ritrarre il cristiano da questa lettura.
83°: È un’illusione persuadersi che la
conoscenza dei misteri della religione non debba essere comunicata alle
donne con la lettura dei libri sacri. L’abuso delle Scritture e le
eresie non sono nati dalla semplicità delle donne ma dalla scienza
orgogliosa degli uomini.
84°: Togliere dalle mani dei cristiani
il Nuovo Testamento o tenerglielo chiuso, togliendo loro il modo di
capirlo [a causa del latino] vuol dire chiudere la bocca a Cristo.
85°: Vietare ai cristiani la lettura
della Sacra Scrittura, specialmente del Vangelo, vuol dire vietare l’uso
della luce ai figli della luce e far che patiscano una certa qual sorta
di scomunica »
(Denz. 1429-1435). Questo semplice
ricordo della dottrina cattolica (negata da queste sette tesi di
Quesnel) ci fa capire quanta strada (verso il protestantesimo) è stata
compiuta col Vaticano II. Scrive l’Amerio: “Il Concilio [Vaticano II]
infatti superò i decreti antigiansenistici e le prescrizioni di PioVI.
Contro la popolarizzazione protestantica e giansenistica della Scrittura
Pio VI stabiliva che la lettura della Bibbia non è necessaria né
conveniente a tutti (Denz. 1507 e 1429). Il Concilio invece (DV, 25)
[Dei Verbum] raccomanda caldissimamente a tutti i fedeli la frequente
lezione della Bibbia” (24).
Si vede subito come, a meno di accettare
l’ottica giansenista e protestante, non si pos- sa leggere
indiscriminatamente la Sacra Scrittura in volgare al popolo. Chi dice
che durante la Messa almeno le letture devono essere fatte in volgare e
non in latino, non sa quel che dice… Leggere in volgare (dopo la lettura
in latino) è possibile solo se il sacer- dote spiega, in seguito, il
significato esatto di quanto si è letto. Questo solo argomento, sarebbe
quindi sufficiente a rifiutare l’introduzione del volgare nella
liturgia.
X. La liturgia in lingua volgare è stata sempre voluta dagli eretici
Stiamo esponendo le “gravi ragioni” per
le quali la Chiesa rifiuta l’introduzione del volgare nella liturgia,
con la conseguente pratica abolizione del latino.
Non è da trascurare quest’ultimo
argomento: chi propugna l’introduzione delle lingue popolari nella
liturgia, si trova in compagnia di tutti gli eretici.
Ricordava dom Guéranger nel 1878 come
ottavo punto “dell’eresia antiliturgica”: “Poiché la riforma liturgica
ha come uno dei suoi scopi principali l’abolizione degli atti e delle
formule mistiche, ne segue necessariamente che i suoi autori dovevano
rivendicare l’uso della lingua volgare nel servizio divino. È questo uno
dei punti più importanti agli occhi dei settari. Il culto, dicono, non è
una cosa segreta. Bisogna che il popolo capisca ciò che canta. L’odio
della lingua latina è innato nel cuore di tutti i nemici di Roma. Vedono
in essa il bene dei cattolici nel mondo intero, l’arsenale
dell’ortodossia contro tutte le sottilità dello spirito di setta, l’arma
più potente del Papato” (25).
Furono favorevoli alla lingua volgare
nel- la liturgia gli scismatici orientali. Lo furono nel XII secolo i
Valdesi ed i Catari: “Questi settari, ricorda Dom Guéranger, che
pretesero per primi la libera interpretazione della Bibbia, furono anche
i primi a protestare contro la lingua liturgica ed a celebrare i
misteri ed i sacramenti in lingua volgare. Fecero di questa pratica uno
degli articoli fondamentali della loro setta…” (26). Dopo di loro
vennero Wiclef in Inghilterra, e Huss in Boemia. Erasmo da Rotterdam fu
censurato dall’università della Sorbona per aver giudicato “cosa
sconveniente e ridicola” vedere gli ignoranti
pregare “senza capire ciò che
pronunciano” (27). “Questa proposizione – secondo i teologi della
Sorbona – (…) è empia, erronea ed apre la strada all’errore dei Boemi
che hanno vo- luto celebrare l’ufficio ecclesiastico in lingua volgare…”
(26).
Tutti conoscono la posizione di Lutero e
degli altri protestanti al riguardo che, anche a questo proposito,
furono condannati dal Concilio di Trento (Denz. 956). Il pastore
protestante Rilliet, parlando dello schema conciliare (del Vaticano II,
ovviamente) sulla liturgia, scrisse: “L’adozione nella liturgia della
lingua popolare è conforme ai nostri proprii princìpi” (27).
I giansenisti non furono da meno.
Pasquier-Quesnel fu condannato per aver sostenuto che “togliere al
popolo semplice [con l’uso del latino nella liturgia, n.d.a.] questa
consolazione di unire la propria voce con quella di tutta la Chiesa è un
uso contrario alla prassi apostolica ed all’intenzione di Dio”
(Proposizione 86, Denz. 1436). Il conciliabolo di Pistoia, voluto dal
Vescovo giansenista Scipione de’ Ricci, aveva auspicato “una maggiore
semplicità dei riti, esponendoli in lingua volgare e proferendoli ad
alta voce” poiché l’uso contrario della Chiesa veniva, secondo il
sinodo, dalla dimenticanza dei princìpi della liturgia. Papa Pio VI
condannò questa pretesa come “temeraria, offensiva delle orecchie pie,
ingiuriosa per la Chiesa, favorevole agli schiamazzi degli eretici
contro di essa” (Denz. 1533). La stessa bolla “Auctorem fidei” di Pio VI
condannò altresì un’altra proposizione del sinodo di Pistoia che
riprendeva l’errore di Quesnel. Dicevano i giansenisti essere “contrario
alla pratica degli Apostoli ed ai disegni di Dio di non fornire al
popolo il mezzo più facile di unire la propria voce a quella di tutta la
Chiesa”. Questa affermazione, scrive Pio VI, “intesa nel senso di
introdurre l’uso della lingua volgare nelle preghiere liturgiche è
falsa, temeraria, perturbativa delle regole prescritte per la
celebrazione dei misteri, facile causa di moltissimi mali” (Denz. 1566).
Un cattolico, che ama istintivamente
tutto quanto viene dalla Chiesa, e fugge altrettanto spontaneamente
tutto quanto ricorda l’eresia, non può desiderare ciò che la Chiesa ha
sempre avversato e gli eretici hanno sempre voluto: la sostituzione del
latino con le lingue volgari nella liturgia.
XI. Abolizione del latino nella riforma conciliare: le sue tappe
Abbiamo analizzato due posizioni
coerenti nei secoli: quella cattolica, in favore del latino; quella
degli eretici, sempre contraria. In quale dei due filoni s’inseriscono
le riforme conciliari e postconciliari? Evidentemente, come su temi ben
più importanti, in quello non cattolico.
La Costituzione conciliare “Sacrosantum
Concilium” sulla Sacra Liturgia, approvata il 4 dicembre 1963, fu il
primo documento del Vaticano II, e la questione liturgica fu la pri- ma
ad essere trattata nell’aula conciliare.
Già in sede di preparazione degli schemi
conciliari, i cattolici ed i riformisti si diedero battaglia sulla
liturgia. Padre Wiltgen s.v.d. riferisce il dramma del Cardinale Gaetano
Cicognani, fratello del Card. Amleto, segretario di stato di Giovanni
XXIII.
Presidente della commissione
preconciliare sulla liturgia, il Card. Gaetano Cicognani, in accordo con
la Congregazione dei riti, si rifiutava di firmare lo schema
preparatorio. Ora, la sua firma era indispensabile, e Giovanni XXIII,
con Bugnini, volevano che sottoscrivesse il rivoluzionario documento.
«Giovanni XXIII chiamò il suo segretario di stato e lo pregò di andare a
trovare il fratello, e di non tornare che con lo schema debitamente
firmato. Il 1 febbraio 1962 il segretario di stato andò quindi a trovare
suo fratello nel suo ufficio; vi trova Mons. Felici ed il P. Bugnini
nel corridoio, e informò suo fratello del desiderio del Sommo Pontefice.
Più tardi, un esperto della commissione preconciliare sulla liturgia
affermò che il vecchio Cardinale tratteneva a stento le lacrime, e che
agitava il documento dicendo: “Mi vogliono far firmare questo, non so
che fare”. Poi posò il testo sulla scrivania, prese una penna e firmò.
Quattro giorni più tardi era morto » (28).
Lo schema arrivò in Concilio, passando
sul cadavere di Cicognani, e venne discusso a partire dal 22 ottobre
1962, per essere approvato complessivamente nel novembre. Fin dalle
prime battute si affrontarono i Vescovi “romani” (fedeli al latino) e
quelli “antiromani”, contrari. Da un lato Dante, Bacci, Staffa, Parente,
Ottaviani, dall’altro Zauner, Frings, Maximos IV, Montini (29). Fu in
questa occasione che il Cardinale olandese Alfrink, applaudito dai Padri
conciliari, tolse la parola, staccando il microfono, al semi-cieco
Cardinale Ottaviani (30 ottobre 1962) (30). Uno dei Padri della
costituzione conciliare, Mons. Zauner, Vescovo di Linz, espose i quattro
grandi princìpi del documento:
1° « “Il culto divino deve essere
un’azione comunitaria; vale a dire che il Sacerdote deve fare tutto ciò
che fa con la partecipazione attiva del popolo e mai solo”. Secondo lui,
l’uso della lingua volgare era la condizione necessaria di tale
partecipazione ».
2° “I fedeli devono essere direttamente arricchiti dalla Sacra Scrittura…”.
3° “Il culto liturgico non doveva unicamente aiutare i fedeli a pregare, ma anche ad insegnare…”.
4° “Laddove i costumi tribali non con- portano elementi superstiziosi, possono or- mai essere introdotti nella liturgia” (31).
« Mons. Zauner aggiunse poi che era
“estremamente soddisfatto” della Costituzione sulla liturgia e che non
aveva mai osato sperare “che si potesse andare così lontano” » (31). In
effetti, i princìpi elencati ricalcano pari pari le tesi condannate dei
protestanti e dei giansenisti.
La Costituzione conciliare si occupa di
latino e lingue volgari al n. 36 per la liturgia in genere, ed al n. 54
per quella della Messa. Si prescrive la conservazione della lingua
latina (n. 36 § 1) nei riti latini, ma si tratta di indorare la pillola…
Il n. 36 § 2 prevede già “una parte più ampia” per il volgare, per poi
dilagare “nell’ammissione ed estensione della lingua volgare” a
richiesta dei Vescovi (36 § 3). Il volgare, di fatto, è voluto in tutte
le parti della liturgia “spettanti al popolo” (36 § 2; 54) salvo “un uso
più ampio” (n. 54), che lascia la porta aperta al seguito.
Il seguito non tarda a venire. Istituito
il “Consilium” per l’applicazione della Costituzione conciliare sulla
liturgia (29/2/1964) vengono date le prime norme con la istruzione
“Inter Œcumenici” del 26 settembre 1964, compleanno di Paolo VI, mentre
il Concilio è ancora in pieno svolgimento. Restano in piedi, a quella
data, il Prefazio ed il Canone, ancora in latino.
Il Prefazio in latino cade il 27 aprile
1965; il Canone il 4 maggio 1967, con l’Istruzione “Tres abhinc annos”.
In 3 anni, appunto, del § 1 del n. 36 della “Sacrosantum Concilium” non
resta più niente, ma ciò in conformità ai princìpi che espone lo stesso
documento conciliare. Chi si appoggia sul Concilio per difendere il
latino, si sostiene… sulle sabbie mobili!
Il solenne funerale del latino, infine, è
celebrato da Paolo VI nel discorso del 27 novembre 1969, quando il
“Novus Ordo Missæ” (la “nuova messa”) corona l’opera iniziata dal
Concilio (32).
XII. Abolizione del latino nella rivoluzione liturgica conciliare: giudizio
La riforma conciliare e post-conciliare
(attuata dagli organi vaticani competenti, ma sotto il controllo di
Paolo VI e con la sua approvazione), ha rotto con una disciplina più che
millenaria della Chiesa Cattolica, ribadita per “gravi ragioni” (Pio
XII), dal concilio di Trento, da Clemente XI, Pio VI, S. Pio X, Pio XI,
Pio XII e, seppur contraddittoriamente, da Giovanni XXIII.
Il motivo avanzato dal Concilio e da
Paolo VI per questa progressiva ma decisa rottura (la partecipazione
attiva dei fedeli impedita dal latino) (34) non differisce da quello, di
ispirazione protestante, adottato da Quesnel e Scipione de’ Ricci, e
già riprovato dalla Chiesa. Se non cade sotto l’anatema del Concilio di
Trento contro chi afferma che la Messa deve essere detta in volgare
(Sessione XII, canone IX) mi sembra almeno (pur essendo questo giudizio
la mera opinione personale di chi scrive), che non sia azzardato
qualificare la rottura operata di fatto anche in questa questione
“secondaria” (in rapporto ad altre più gravi) col giudizio già
manifestato in precedenza dalla Chiesa. Questa rottura, cioè, può essere
qualificata come temeraria, offensiva, ingiuriosa per la Chiesa,
favorevole agli schiamazzi degli eretici contro di essa, perturbatrice
delle regole prescritte per la celebrazione dei misteri, facile causa di
moltissimi mali.
La certezza che Paolo VI non era
formalmente l’autorità (33), e che il Vaticano II non viene dalla
Chiesa, certezza dovuta a ben più gravi decisioni di entrambi, ci mette
al riparo dal gravissimo gesto, che avremmo compiuto altrimenti, di
giudicare l’Autorità legittima della Chiesa.
XIII. Perché diciamo la Messa in latino?
Rispondo pertanto a chi ci potrebbe
chiedere: “Perché dite la Messa in latino?”. Semplicemente perché così
lo vuole la Chiesa Cattolica, nelle sue rubriche liturgiche e nelle sue
leggi canoniche (can. 819 e 1257). Semplicemente, perché siamo Sacerdoti
cattolici di rito latino.
Note
(1) Itinéraires n.93 mai 1965, p.154.
(2) ANNIBALE BUGNINI, La riforma liturgica (1948- 1975), CLV Edizioni Liturgiche, Roma 1983, p. 109.
(3) Lettera dei Cardinali Ottaviani e Bacci.
(4) In Notitiæ 92, aprile 1974, p.126. Citato da CELIER, La dimension œcumenique de la Reforme liturgique, Fideliter 1987 p.7.
(5) Dall’introduzione del “Novus Ordo
Missæ” (1969) sono state usate le espressioni più disparate per
designare il Messale precedente: Messa di sempre, di S. Pio V,
Tridentina, antica, in latino, ecc. A rigor di termini una sola
espressione è corretta: Messale Romano, Rito romano. Infatti, per la
Chiesa, la “nuova messa” il “nuovo messale” non esistono, in quanto atti
nulli di chi non era (più) formalmente Papa. Tuttavia anche noi
utilizziamo i termini sopra menzionati, anche se scorretti, per farci
capire dai lettori.
(6) La collaborazione attiva, voluta da
Paolo VI, di osservatori non cattolici (cioè eretici) alla riforma
liturgica è ampiamente documentata da: GREGOIRE CELIER, La dimension
œcumenique de la Reforme liturgique, ed. Fideliter 1987, pp. 26-30.
(7) Nell’unica Chiesa Cattolica difatti
si distinguono la Chiesa Latina e la Chiesa Orientale, che hanno riti e
leggi diversi (cfr. Codice di diritto canonico, can.1).
(8) Pio XII, Discorso: Vous nous avez
demandé, ai partecipanti del primo Congresso di liturgia pastorale, 22
sett. 1956. INSEGNAMENTI PONTIFICI – La liturgia, ed. Paoline 1959, n.
821 (13, 18).
(9) DOM PROSPER GUÉRANGER, Institutions
Liturgiques (1840-1851) – Extraits établis par Jean Vaquié, DPF.
Chiré-en-Montreuil, 1977, pp. 249-250.
(10) GUÉRANGER, op. cit. p. 241. (11) GUÉRANGER, op. cit. p. 240.
“Messa” concelebrata da alcuni
missionari della Consolata Dom Guéranger ammette, ovviamente, che nei
primi secoli siriaco, latino e greco erano lingue vive, e pertanto
intellegibili dal popolo. “Solo il tempo – fa notare – può fare di una
lingua volgare una lingua sacra: l’uomo non inventa le lingue a priori…”
(p. 248).
Tuttavia “molti popoli, durante questi
tre secoli, furono chiamati alla luce del Vangelo; ma poiché bisogna
ammettere che non possedessero una traduzione della Sacra Scrittura
nelle proprie lingue, sosteniamo che neppure celebrarono la liturgia in
lingua volgare…” (p. 248)… Fin dal principio, quindi, queste tre lingue
sono considerate diverse dalle altre, come “consacrate” a Dio.
(12) INSEGNAMENTI PONTIFICI, op. cit. p.
229 (18). (13) A. A. S., 31 (1899) 645. (14) IOACHIM SALAVERRI S.J., De
Ecclesia Christi, n.
446; in “Sacræ Theologiæ Summa” vol. I, B.A.C., Madrid 1962.
(15) Omelia tenuta il giorno 13-IV-1969
nella Chiesa di S. Girolamo della Carità in Roma. Documenti di “Una
Voce” n.1 a cura di “Una Voce”, c.so Vittorio Emanuele II, 21 Roma.
(16) DOM GUÉRANGER, op. cit. pp. 254-255.
(17) ROMANO AMERIO, Iota Unum, Riccardo Ricciardi Editore 1985, pp. 517-518.
(18) INSEGNAMENTI PONTIFICI, op. cit. p. 547.
(18 bis) Per una denuncia recente di
gravi alter- azioni dogmatiche nelle traduzioni liturgiche, si veda la
rivista ‘30 Giorni’ (n. 5/maggio 1992, pp. 36-42), che alla questione
dedica anche la copertina.
(19) Dell’autorità di Giovanni XXIII e
delle circostanze che portarono alla promulgazione della “Veterum
Sapientia”, puntualmente disattesa dallo stesso Giovanni XXIII, si
parlerà nei prossimi numeri di ‘Sodalitium’ dedicati al “Papa del
Concilio”.
(20) Recita “l’Institutio generalis” del
nuovo Messale: “La natura delle parti presidenziali esige che esse
siano pronunciate a voce alta ed intellegibile, ed ascoltate da tutti
con attenzione…” (n. 12).
Commenta Arnaldo Xavier da Silveira (La
nouvelle Messe de Paul VI: qu’en penser?, DPF. Chiré-en- Montreuil 1975,
pp. 32-33): «Quindi le parole della consacrazione devono, anch’esse,
essere pronunciate in questo modo. Il che insinua, ancora una volta, che
in questo momento il sacerdote agisce specificamente come delegato del
popolo.
Inoltre, questo articolo
dell’“Institutio” contiene in maniera evidente un’importante
contraddizione con la rubrica dell’“Ordo” tradizionale secondo la quale
il canone non è pronunciato a voce alta ed intellegibile”. Questo fatto
merita un’attenzione particolare, a causa dell’anatema seguente
promulgato dal Concilio di Trento: “Se qualcuno dice che il rito della
Chiesa romana col quale una parte del canone e le parole della
consacrazione sono pronunciate a voce bassa, debba essere condannato (…)
che sia anatèma” (Denz. Sch. 1759).
Dichiarando che è la natura delle parti
“presidenziali” (quindi della preghiera eucaristica e delle parole della
consacrazione) che esige che siano pronunciate a voce alta ed
intellegibile, l’“Institutio” pone un principio valido in ogni epoca, ed
afferma in conseguenza implicitamente che il Concilio di Trento si è
sbagliato su questo punto”»
Da Silveira non nega la possibilità di
recitare a voce alta delle preghiere che prima erano recitate a voce
bassa. Egli nega l’affermazione secondo la quale dette preghiere esigono
per loro natura, ai tempi del Concilio di Trento
come del Vaticano II, di essere recitate
a voce alta. Difatti, chi lo afferma, cade sotto la condanna del
Concilio di Trento. Ora, è Paolo VI che ha promulgato l’“Institutio
generalis” del “Novus Ordo Missae”, che lo afferma. Questo solo fatto,
apparentemente insignificante, basta per constatare che la “Nuova Messa”
non può venire dalla Chiesa e che Paolo VI non era, allora, l’Autorità.
(21) DOM GUÉRANGER, op. cit. p. 260.
(22) DOM GUÉRANGER, op. cit. p. 247 – 248. (23) DOM GUÉRANGER, op. cit.
p. 146. (24) DOM GUÉRANGER, op. cit. p. 539. La disciplina della Chiesa
che proibisce in certi casi
la lettura della Bibbia in volgare non
ha bisogno di giustificazioni, poiché si giustifica da se stessa. Se mai
ce ne fosse bisogno, l’Amerio ricorda le parole stesse della Scrittura.
San Pietro, parlando delle epistole di San Paolo, scrive infatti:
“…come fa in tutte le lettere, ove parla di queste cose, nelle quali vi
sono alcuni punti dif- ficili ad intendersi e che degli ignoranti e i
poco stabili s- travolgono – come anche le altre Scritture – per loro
perdizione” (2 Pt. III, 16). “Peraltro – aggiunge l’Amerio – la prova
perentoria che la Scrittura è difficile e non universalmente
divulgabile, è data paradossalmente dalla presente riforma medesima.
Essa invero ha fatto nei testi biblici quello che fu fatto per i
classici latini nelle edizioni espurgate ad usum Delphini, ma che non fu
mai osato per il sacro testo. La riforma ha infatti stralciato dai
Salmi cosiddetti imprecatorii i versicoli che sembravano incompatibili
colle vedute ireniche del Concilio, mutilando il sacro testo e
sottraendolo per così dire furtivamente alla cognizione di tutti,
chierici e laici. Ha inoltre espunto interi versicoli dai testi del
Vangelo nelle Messe in 22 punti che toccano il giudizio finale, la
condanna del mondo, il peccato” (op. cit. pp. 538-539).
(25) DOM GUÉRANGER, op. cit. p. 110.
Negli estratti che cito manca l’ultimo membro di frase: ”L’arma più
potente del papato”. La ricavo dalla citazione che il “Cardinal” Alfonso
Stickler ne fa nel suo articolo: “A 25 anni dal- la Costituzione
Apostolica Veterum Sapientia di Giovanni XXIII” in Salesianum 2 (1988)
36377. Stickler però non cita la prima parte della frase riguardante non
l’odio del latino, ma la rivendicazione del volgare nella liturgia.
Forse, sarebbe stata una denuncia troppo esplicita di colui che tale
rivendicazione soddisfò pienamente, vale a dire Paolo VI.
(26) DOM GUÉRANGER, op. cit. pp. 255-256-257.
(27) J. RILLIET, Vatican II, échec ou
réussite. Editions générales S.A. 1964, pp.57-58, cit. in CELIER. La
dimension œcumenique de la Réforme Liturgique. Fideliter, 1987, p.15.
(28) RALPH M. WILTGEN S.V.D., Le Rhin se jette dans le Tibre, ed. americ. 1967. Ed. du Cèdre (ed. francese) 1976, p. 139.
(29) Ibidem pp. 25-28; 39-42; 135-139.
(30) Ibidem p. 28. (31) Ibidem pp. 36-37. (32) Tutti i dettagli
dell’opera di demolizione nello
scritto del suo autore principale agli
ordini di Paolo VI, MONS. ANNIBALE BUGNINI: La riforma liturgica (1948-
1975). CLV – Ed. liturgiche – Roma 1983. Specialmente: pp. 109-121.
(33) Certezza provata, è vero, a partire
dall’8 dic. 1965. Ma fin dal principio del Pontificato l’autorità di
Paolo VI può e deve essere messa in discussione, per motivi analoghi a
quelli che ce la fanno negare a partire dal 1965.
(34) Rarissimi permessi di usare il
volgare nella liturgia di rito latino furono accordati solo in certi
paesi di missione, nelle giovani Chiese, per favorire le conversioni, e
non senza ripensamenti. Si può dire, anzi, che quasi sempre Roma ha
negato, e quasi mai concesso, le domandate autorizzazioni.
Per gli Slavi, fu concesso il volgare
(parzialmente) da Adriano II (870) proibito da Giovanni VIII (873, 879) e
poi dallo stesso permesso (880) ed infine del tutto vietato da Stefano V
(885-887).
Per i Cinesi fu permesso da Paolo V
(1615) ma senza applicare tale facoltà, poi sempre e ripetutamente
negata (1661, 1667, 1673, 1676-78, 1681-88, 1695-98).
Per gli Ungheresi, fu vietato da San Pio
X [AAS, 4 (1912) pp. 430,433] cfr. Enc. Cattolica, vol. VII, col.
1379-1381, voce Lingua Liturgica.
Originalmente pubblicato su Sodalitium n. 30, giugno-luglio 1992: http://www.sodalitium.biz/index.php?ind=downloads&op=entry_view&iden=1
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