giovedì 14 gennaio 2016

Deus non deserit si non deseratur.




Vladìmir Vladimirovich Putin: la sua vita per capire il suo modus operandi e il suo pensiero

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Vladìmir Vladimirovich Putin:
la sua vita per capire il suo modus operandi e il suo pensiero


Prologo

Le recenti vicende belliche in Crimea e in Ucraina (gennaio/settembre 2014) ci fanno toccar con mano ciò che sino a ieri poteva apparire, agli occhi dei più, soltanto una probabilità. Il Nuovo Ordine Mondiale vuole distruggere Putin e la Russia putiniana, poiché stanno giocando il ruolo del katéchon, ossia “l’ostacolo che trattiene” (San Paolo) le forze della Sovversione mondialista e globalizzatrice (Israele, Usa e l’Arabia Saudita wahabita). Se non ci fosse stato Putin, gli Usa avrebbero fatto fare alla Siria la stessa fine che hanno fatto fare all’Iraq. L’ostacolo che ha fermato l’invasione della Siria, poi dell’Iran e infine della Russia è stato Putin. Questo è un fatto e “contro il fatto non vale l’argomento”.
Putin è diventato oramai per i mass media finanziati dalla “contro-chiesa” il neo-Hitler, il neo-Saddam, il neo-Gheddafi o il neo-Assad da eliminare. Si inizia con la manipolazione del pensiero (Putin viene già dato per impazzito) a mezzo stampa, televisione e radio per terminare con una condanna capitale pubblica ed esemplare (come è successo per Saddam e Gheddafi), una sorta di “Norimberga 1946/permanente” che non passa e non deve passare proprio come la shoah.
L’Europa e l’Italia del XX secolo, schiave degli Usa già a partire dalla prima e soprattutto dalla seconda guerra mondiale son divenute una mera base logistica di atterraggio e di lancio per gli aerei degli Stati Uniti d’America e d’Israele (che anch’esso, da qualche anno, ha una parte della sua flotta aerea stanziata in Sardegna). L’Unione Europea del XXI secolo è geo-politicamente e finanziariamente un’appendice del nord America, anzi un’appendicite infiammata e oramai purulenta prossima alla peritonite.
Inoltre la politica dell’UE nei confronti della Russia, come è successo con l’Iran e la Libia, è auto-lesionistica per l’economia della Vecchia Europa. Infatti l’embargo decretato dagli Usa e dall’UE contro la Russia ha delle ripercussioni molto gravi sull’economia europea già in semi-fallimento conclamato a partire dal 2010.
L’alleato naturale (fisico, storico, culturale e geografico) dell’Europa non dovrebbero essere forse proprio le Nazioni limitrofe dell’est europeo e del Mediterraneo: Russia occidentale o europea (non forzatamente quella asiatica), Siria e Libia?
L’Atlantico non è forse uno spazio troppo vasto (rispetto al Mediterraneo e all’Europa dell’est) per poter essere valicato facilmente e rifornire, ad esempio, l’Europa occidentale di gas, che la Russia non ci darà più e che gli jiadhisti di Daesh (ISIS-ISIL…) hanno, recentemente, quasi interamente bruciato in Libia dopo la scomparsa (decretata dagli Usa del Presidente Obama ed eseguita dalla Francia del Presidente Sarkozy) di Gheddafi?
Eppure l’UE si è schierata, suicidariamente, contro i suoi vicini di terra e di mare, con i quali commerciava (importando ed esportando) e con i quali non potrà più far affari proprio nel momento del suo maggior bisogno.
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il presidente siriano Dr. Bashar Hafez al-Assad incontra il presidente russo Dr. Vladimir Vladimirovich Putin a Mosca nell’ottobre 2015, mentre erano in corso con successo le operazioni militari congiunte siro-russe sul territorio siriano, per esplicita richiesta del legittimo governo di Damasco, contro Daesh (il cosidetto ISIS) e le bande armate di tagliagole, terroristi-mercenari appoggiati e armati dall’Occidente, sia direttamente (per volere di Obama, del Congresso USA, nonché di alcune nazioni appartenenti alla NATO) che per procura per mano saudita, turca e qatariota
I politici europei (marionette nelle mani dell’Alta Finanza e dei Club o Think-Tank mondialisti israelo/americani) fanno finta che il re sia vestito (ossia, che l’Europa e l’Italia stiano in piena “salute”, v. Matteo Renzi), mentre invece “il re è nudo” (v. Christian Andersen). In realtà occorre svegliarsi e unire le nostre forze in vista di arrestare il “trasbordo ideologico/finanziario inavvertito” verso la plutocrazia israeliano/americana e capire se non ci conviene stare con Putin piuttosto che con Washington, Tel Aviv o “Bruxelles”.
Per capire meglio la questione è utile conoscere la vita e il pensiero di Vladìmir Putin. A questo proposito ci è utile un bel libro, ben documentato, appena uscito preso l’editore Mondadori di Milano, intitolato Putin. Vita di uno zar, scritto da Gennaro Sangiuliano, vicedirettore del TG 1 e collaboratore del Sole 24 ore. Mi baso su di esso per porgere al lettore i tratti essenziali della personalità di Vladìmir Putin.
Introduzione panoramica
Vladìmir Putin è nato il 7 ottobre del 1952 a Leningrado (l’odierna San Pietroburgo), che è stata la città sovietica ad aver subìto il più massiccio e cruento assedio nella guerra tra Germania e Urss, assedio durato circa 3 anni, in cui son morti circa 1 milione di cittadini.
I genitori di Putin, che vivevano a Leningrado durante la seconda guerra mondiale, sono scampati alla morte, ma la madre ha rischiato di morire di fame e il padre è stato gravemente ferito ad una gamba in battaglia, ferita che lo lascerà semi-invalido per tutto il resto della sua vita.
Il giovane Vladìmir era piccolo di statura, gracile, ma molto forte di carattere, assai coraggioso, quasi temerario; inoltre non gli faceva difetto un’intelligenza viva e pronta, che lo ha portato a leggere molto, anche se come carattere era piuttosto un giovane “di strada” turbolento e, come ha detto lui stesso, “un teppista”.vladimir_putin_giovane
A 12 anni Vladìmir legge ‘Lo scudo e la spada’ un best-seller che racconta le avventure di uno 007 sovietico, diventato successivamente una popolare fiction televisiva, una specie di James Bond sovietico. Dall’amore per questo personaggio sarebbe nata la sua vocazione di entrare nel Kgb, il servizio segreto sovietico, dopo aver conseguito una brillante laurea in giurisprudenza in una delle più prestigiose università dell’Urss, del quale Kgb divenne colonnello e poi Direttore (nonché vicesindaco di Leningrado e Presidente della Russia a partire dal 2000).
La mentalità di Putin rappresenta il tentativo della Russia dopo il crollo dell’Urss (1989) di resistere all’americanizzazione, all’occidentalizzazione e quindi alla globalizzazione del mondialismo. Egli, inoltre, ha scongiurato la restaurazione del comunismo in Russia dopo il 1989 data l’incompetenza dei “democratici”, ossia i partigiani di Boris Eltsin.
Certamente Vladìmir ha combattuto con fermezza e spietatamente la guerra contro la Cecenia, che è stata una “guerra sporca, come lo fu quella degli americani in Vietnam, ma con la differenza che la prima era un pezzo della Russia, mentre l’Indocina era a migliaia di chilometri da Washington” (G. Sangiuliano, Putin. Vita di uno zar, Milano, Mondadori, 2015, p. 6).
Inoltre “la massiccia presenza dei guerriglieri ceceni in Siria, Iraq – a fianco dei talebani e dell’Isis -rivela che, se Putin non avesse stroncato la Cecenia islamica, sarebbe sorto un califfato islamico in Russia che avrebbe minacciato la sicurezza globale” (ivi).
La Russia di Putin non è una democrazia, è questa l’obiezione più frequente contro il Presidente russo, ma “la Russia non può essere una democrazia perché se lo fosse non esisterebbe” (L. Caracciolo, la Repubblica, 7 marzo 2015).
I politologi parlano di “democrazia controllata” per distinguere il regime di Putin da quello totalitario sovietico, da quello autoritariozarista e nello stesso tempo dalla “democrazia libertaria e agnostica” occidentale, che dimentica le sue tradizioni culturali e religiose, le quali al contrario sono la base comune della Russia putiniana.
Per Putin il governo della Russia non può reggersi senza un attaccamento profondo al senso della gerarchia e del comando, al popolo inteso come comunità radicata nella propria terra o Patria, che ha una tradizione religiosa ben specifica (il Cristianesimo) e una cultura (specialmente letteraria e musicale, fisica, matematica e chimica) di prim’ordine.
Invece gli intellettuali occidentali hanno perso il contatto con la realtà e il popolo (che non è la massa) ed hanno installato una Società sradicata, senza terra, Patria, religione, tradizione, gerarchia, ordine, disciplina e soprattutto senza anima culturale e religiosa.
La stirpe in senso lato, la cultura, la tradizione, la religione, una certa metafisica hanno un ruolo fondamentale secondo Putin per poter mantenere in piedi un Paese.
La deficienza di tutto ciò ha portato, secondo Putin, al crollo dell’Urss nel 1989 e porterà al crollo degli Usa e dell’Occidente atlantico, che ha tagliato le sue radici europee per installarsi, contro la sua natura, nel deserto culturale, spirituale e tradizionale dell’America del nord, che al massimo può rifarsi all’illuminismo britannico, il quale è la negazione della metafisica europea ossia greco/romana e cristiana.
Un personaggio, che è un punto di riferimento per la cultura metafisica e tradizionale, ha giocato un ruolo di padre e maestro per Putin: Alexander Solgenitsin, il quale ha sempre ricordato a oriente come ad occidente che la soluzione dei problemi creati dal comunismo sovietico alla Russia non poteva essere il liberismo anglosassone e specialmente americano.
L’adolescenza di Putin
putin-giovane-afp258-258Un episodio della vita di Putin tredicenne ci fa capire la sua personalità, il suo carattere e il suo modo di pensare e di agire (cfr. G. Sangiuliano, cit., cap. I).
Un mattino un bambino amico di Vladìmir viene pestato nel cortile del suo palazzo popolare e periferico, senza ragione, da un bullo grande e grosso di 18 anni. Vladìmir assiste impassibile alla scena e non interviene perché il bullo è accompagnato da un nutrito “branco”. Però per lui l’amicizia è sacra e quindi decide di vendicare l’amico. Si siede nel centro del cortile e aspetta che la sera il bullo rientri a casa. La lotta sarebbe impari, ma Vladìmir salta sopra il bullo e lo prende a pugni, calci, graffi, morsi (G. Sangiuliano, cit., p. 13). Il bullo è sopraffatto dall’aggressività di Putin, che è una delle componenti del suo carattere giovanile, la quale tuttavia è stata domata da Vladìmir con lo judo, la riflessione, gli studi e la voglia di entrare nel Kgb. Il non abbandonare mai un amico, soprattutto se caduto in disgrazia o se in difficoltà, fa parte della personalità di Putin e questo non bisogna mai dimenticarlo neppure a livello internazionale, politico e bellico.
Il padre di Vladìmir si era arruolato volontario in un corpo d’élite dell’Armata Rossa appartenente alla NKVD (l’antenata del Kgb) ed aveva combattuto la battaglia della “sacca della Neva” ove gli scontri erano assai cruenti e persino feroci ed era tornato, finita la battaglia di Leningrado, a casa ma come invalido permanente ad una gamba. Si era iscritto ancor giovane al Partito Comunista Sovietico ed era un comunista convinto e militante.
putin-parentsLa madre aveva rischiato di morire di fame nel lungo assedio di Leningrado e ne ha risentito per tutta la vita camminando a fatica ed appoggiandosi sempre ad un bastone. Putin ha confessato di essere stato battezzato in segreto da sua madre, fervente cristiana, contro il parere del padre, convinto ateo bolscevico.
Finita la guerra il padre di Vladìmir trova posto come operaio specializzato in una fabbrica di materiale ferroviario.
La casa della famiglia Putin misura 20 metri quadrati, consta di una sola camera in cui si dorme, si mangia, si studia. Naturalmente la strada diventa il luogo preferito del giovane Vladìmir, che ammetterà di essere stato un piccolo teppista di strada e di essersi conquistato uno spazio vitale nella dura vita della periferia di Leningrado. L’aggressività è una caratteristica del carattere di Vladìmir, che non sopportava di esser insultato e veniva sùbito alle mani in maniera molto violenta e quasi furiosa.
A scuola è vivace, intelligente, indisciplinato, aggressivo, ma capace di riuscire negli studi. “Man mano che cresceva, Putin, pur mantenendo un carattere vivace, migliorò di molto i rapporti con la scuola, cominciandosi a distinguere per intelligenza ed impegno. Intorno ai 13 anni era uno degli elementi più brillanti, seguiva con attenzione le lezioni, approfondiva e leggeva di continuo. […]. La predisposizione ai gesti di violenza resta, ma Vladìmir cerca di indirizzarla in un’attività sportiva: prova il pugilato, ma gli viene spaccato il setto nasale. Allora sceglie il sambo, una lotta tipicamente russa, che fonde elementi di karatè e di judo con l’aggiunta di alcune mosse di corpo a corpo popolare russo. […]. La passione per le arti marziali continuerà negli anni successivi e Vladìmir si dedicherà al judo, diventando, nel 1976, campione cittadino di Leningrado, dopo esser diventato cintura nera del sesto dan” (G. Sangiuliano, cit., p. 22).
L’amore per il KGB
putin-giovane-37La sede del Kgb di Leningrado incute timore a tutti, ma nel 1968 un esile ragazzo di 16 anni entra spedito in quel palazzo e chiede ad un agente di guardia informazioni per lavorare presso il Kgb. L’agente risponde infastidito che non si sceglie il Kgb, ma si è scelti. Inoltre occorre una laurea in legge (G. Sangiuliano, cit., p. 39). Vladìmir finisce quindi gli studi secondari, apprende il tedesco e l’inglese assai bene e intraprende l’esame per essere ammesso nella facoltà di giurisprudenza di Leningrado, cosa difficilissima in quegli anni, in cui l’università era riservata ai figli dei burocrati del Partito Comunista Sovietico. Nonostante ciò Vladìmir, nel 1970, supera i test ed entra nella facoltà di legge.
Tuttavia anche negli anni universitari Vladìmir “mantiene il suo carattere introverso e sospettoso di tutti. […]. Non beve alcolici, non gioca, è freddo di carattere” (G. Sangiuliano, cit., p. 42).
Un’altra passione di Vladìmir è la musica classica.
Inoltre «è ordinato e cauto anche nelle amicizie femminili. Durante gli studi conosce una studentessa in medicina molto carina, con la quale intraprende una relazione importante. […].
“Fu un amore molto importante, eravamo decisi a sposarci”, rievocherà anni dopo Vladìmir, “avevamo chiesto la licenza matrimoniale, tutto era pronto… quella di annullare le nozze fu la decisione più difficile della mia vita. È stato davvero tremendo, mi son sentito male. Ma ho deciso che era meglio soffrire allora che aver entrambi molti problemi dopo”.
Il divorzio era concesso in Urss, ma veniva valutato male dal Partito per chi si proponeva di far carriera. Perché il giovane Putin ruppe la promessa di matrimonio? Non lo ha mai chiarito, ma è probabile che sia stato per la carriera […] il Kgb gli avrebbe suggerito di non sposarsi troppo giovane» (G. Santangelo, cit. p. 44-45).
Alla facoltà di giurisprudenza di Leningrado, Vladìmir incrocia per la prima volta Anatolij Sobciack, un valente e colto giurista. Ora definire Sobciack un dissidente, alla pari di Sacharov e di Solgenitsin, è eccessivo, ma appartiene alla cerchia di intellettuali non in piena sintonia col regime sovietico. Egli propugna, nelle sue lezioni universitarie, il passaggio da un’economia socialista a un’economia di mercato. Il giovane Putin ne resta affascinato.
La chiamata del KGB
August 18-2015 Russian President Vladimir Putin in SevastopolDopo 4 anni di università Putin ricevette una telefonata. Era un funzionario del Kgb che volle incontrare Vladìmir e restò bene impressionato dal carattere riservato, non particolarmente espansivo, ma pieno di energia, di flessibilità mentale e di coraggio del giovane Putin, che inoltre possedeva alla perfezione la lingua tedesca e inglese. Quindi fu ingaggiato nel Kgb.
A 23 anni Putin si laurea con una tesi di diritto internazionale, il che gli aprirà più tardi le porte per il suo lavoro di agente segreto in Germania orientale. Siamo verso la metà degli anni Settanta, l’Urss è all’apice della sua potenza militare, tecnologica e politica. Invece gli Usa si trovano in difficoltà: si è appena conclusa la guerra in Vietnam con la sconfitta americana (aprile 1975) ed inoltre lo scandalo Watergate costringe il presidente Richard Nixon alle dimissioni. Il neo presidente Jimmy Carter è privo di esperienza e senza una chiara visione di politica estera. Questo stato di debolezza statunitense terminerà nel 1981 con l’arrivo alla Casa Bianca di Ronald Reagan e l’Urss cerca di sfruttare la momentanea crisi nordamericana.
“Dopo 4 anni dalle dimissioni di Nixon i sovietici si erano convinti, grazie ai rapporti del Kgb, che la caduta di Nixon fosse stata determinata… da un complotto ordito dai nemici della distensione. I servizi segreti sovietici indicavano espressamente i sionisti o meglio la lobby ebraica” (G. Sangiuliano, cit., p. 50).
Eppure la potenza dell’Urss corrisponde solo alla superficie della società civile sovietica. La realtà è il fallimento sociale, economico e politico. Il socialismo reale ha prodotto una miseria diffusa in tutta l’Unione sovietica. L’unica cosa che non manca, purtroppo, è la vodka, che alimenta la piaga sociale di un alcolismo diffusissimo.
Ciò nonostante le università sovietiche continuano a sfornare una classe di fisici, matematici e chimici geniali, le cui scoperte vengono, però, affossate dalla burocrazia.
Il comunismo sovietico è fallito
russias-president-vladimir-putinIl KGB sin dagli anni Settanta era ben conscio di questa situazione reale di degrado interno e sostanziale, che era diametralmente opposta alla facciata di potenza, oramai soltanto esteriore e accidentale, dell’Urss. Questo è un altro paradosso sovietico: il fatto che proprio il Kgb, ossia la punta di diamante del socialismo reale, sia perfettamente conscio del fallimento e dell’implosione oramai prossima del comunismo russo, negata dalla classe dirigente e appena avvertita dalla popolazione.
Da una parte la propaganda politica del Partito Comunista esaltava le grandezze apparenti dell’Urss e dall’altra i servizi segreti sovietici “andavano maturando la consapevolezza che il sistema era marcio e non avrebbe retto a lungo. Ma negli anni Settanta l’implosione è ancora lontana anche se i germi dello sfascio sono costanti”(G. Sangiuliano, cit., p. 55).
Anche il livello altamente specializzato del Kgb iniziava a scricchiolare. Putin se ne accorge subito.
Nel febbraio del 1976 viene mandato a sostenere un corso operativo a Ochta uno dei centri più qualificati dell’intelligence sovietica e lo definisce: “una scuola assolutamente insignificante” (G. Sangiuliano, cit., p. 56).
Negli anni Settanta scoppia il caso della dissidenza dei grandi intellettuali russi. Alexandr Solgenitsin scrive Arcipelago Gulag nel 1972, che viene tradotto in inglese e diffuso in mezzo mondo nel 1974.
Il consenso è travolgente anche in Urss. Breznev perde le staffe e lo qualifica “una rozza caricatura anti-sovietica scritta da un teppista”. Solgenitsin replica pacatamente e con argomenti solidi: il comunismo vorrebbe durare in eterno, ma ha fallito irrimediabilmente; l’unica via di salvezza per la Russia è abbandonare il marxismo/leninismo per aderire ad una ideologia politica nazionale e patriottica di base religiosa.
Putin è pienamente d’accordo con Solgenitsin. Andropov, l’allora direttore del Kgb, è preoccupato poiché capisce che la situazione reale è quella descritta da Solgenitsin.
Putin ha sempre affermato, in varie interviste riportate da Gennaro Sangiuliano nel suo libro, di non avere mai partecipato alle attività repressive degli intellettuali dissidenti poiché la sua missione era quella del controspionaggio.
Anzi alcuni colleghi di Putin hanno testimoniato che Vladìmir “aveva maturato gli stessi punti di vista di Sacharov e provava un rispetto speciale per Solgenitsin” (G. Sangiuliano, cit., p. 62).
“L’agente Putin si va progressivamente convincendo che l’Urss è marcia nel sistema, che la stagnazione economica non sarà mai superata se non si ha il coraggio di rompere lo schema del socialismo reale per passare a un’economia di mercato, perché la proprietà privata è un elemento naturale dell’essenza umana” (ivi).
Il matrimonio
putin-wedding-2Il 28 luglio del 1983 Vladìmir sposa, dopo 3 anni e mezzo di fidanzamento, una giovane ragazza di nome Ludmilla. Anche lei era stata battezzata di nascosto a 5 anni da sua madre, la cui religiosità mai sopita sarà decisiva per il risveglio religioso di Putin avvenuto qualche anno dopo.
Un fatto intercorso tra Vladìmir e Ludmilla durante il loro fidanzamento, che viene riportato da Sangiuliano, ci fa capire ancor meglio la personalità di Putin. Egli è molto geloso e non accetta comportamenti troppo allegri o occidentali.
«Una volta dopo una serata trascorsa in un locale dove Ludmilla si era scatenata a ballare con degli amici, Vladìmir la trae in disparte e le dice a muso duro: “La nostra storia non ha futuro”. La ragazza rimase sconvolta…» (G. Sangiuliano, cit., p. 71).1406274036128_Image_galleryImage_Vladimir_Putin_s_daughter
Nel 1985 nasce Maria, la prima figlia, a Leningrado; la seconda, Katerina, nascerà a Dresda. La prima porta il nome della madre di Putin, la seconda quello della madre della mamma, secondo tradizione.
In Germania orientale
Putin arriva a Dresda nel 1985 appena dopo la morte di Cernenko e l’avvento al Cremlino di Gorbaciov.
“La crisi morale e materiale del comunismo, latente da almeno un ventennio, esplode e inizia il periodo di turbolenza che culminerà con la dissoluzione dell’Urss” (G. Sangiuliano, cit., p. 79).
Nel novembre del 1989 cade il muro di Berlino e la sede della Stasi (la polizia politica tedesca orientale) viene presa d’assedio; il 3 dicembre tocca alla sede del Kgb di Dresda ove risiede Vladìmir che è ancora un maggiore del Kgb. Egli decide di non usare le armi; la polizia della Germania dell’est è allo sbando e non soccorre i colleghi del Kgb. Putin va a parlare con la folla dei dimostranti e solo quando molto più tardi giunse un distaccamento militare sovietico la folla che si era fatta minacciosa si disperse.
«C’erano state tante minacce verbali ma non era accaduto nulla di violento. Gli agenti del Kgb si erano armati, ma il giovane maggiore aveva raccomandato moderazione e calma. Per il resto tutto era chiaro: “Ebbi l’impressione che il Paese non ci fosse più. Era chiaro che l’Urss era malata di quel morbo micidiale che si chiama paralisi del potere”» (G. Sangiuliano, cit., p. 84).
Il crollo del comunismo sovietico e il ritorno a Leningrado
La città è in preda al caos, gli approvvigionamenti alimentari sono scarsi, il riscaldamento è un lusso, il caos e l’anarchia regnano in Urss.
Putin provava un forte disappunto per il crollo di tutto. Era molto disincantato e si chiedeva: “come hanno potuto sbagliare? Non ascoltare le nostre parole? nessuno a Mosca ha letto i nostri rapporti? Noi li avvertivamo di quello che stava per accadere” (G. Sangiuliano, cit., p. 87).
La perestroika (ristrutturazione) e la glasnost (trasparenza) di Gorbaciov non ottengono nulla. Gorbaciov è un dirigente comunista che pensa di poter risolvere il problema sovietico con la distinzione tra comunismo vero e buono contro comunismo falso e cattivo. Egli non ha intenzione di abbattere il Partito Comunista Sovietico, lo vuol ringiovanire e guarire, ma all’interno dell’Urss egli non gode di grande successo come invece avviene all’estero. Al degrado economico si accompagna il caos politico e la presenza costante della criminalità organizzata. Inoltre la fine del comunismo porta con sé il risveglio religioso cristiano ed anche il pericolo della nascita di una sorta di Califfato islamico nelle Repubbliche ex sovietiche di fede musulmana. Nel 1988 iniziano i primi conflitti nel Caucaso tra l’Azerbaigian musulmano e l’Armenia cristiana e si arriverà alla guerra aperta nel 1992.
Frattanto ascende l’ingegnere Boris Eltsin, che sin dall’inizio dà prova di voler veramente cambiare lo status quo dell’Urss e non solo la facciata come Gorbaciov. Il 15 marzo 1989 Gorbaciov viene eletto presidente dell’Urss, ma il 29 marzo Eltsin è eletto Presidente del Congresso della Repubblica Russa e non sovietica. Da quel momento a Mosca ci sono de facto 2 parlamenti, con 2 presidenti: una struttura sovietica e una russa. Questo assetto non può durare. Gorbaciov è sempre più isolato all’interno del suo Paese, sembra un visionario che sogna il ristabilimento del comunismo sovietico sotto una forma meno radicale come era successo nel processo di de-stalinizzazione.
“Il 17 agosto del 1991 scatta un golpe dei comunisti radicali contro Gorbaciov, che rimane passivo. Eltsin si schiera sùbito ed energicamente contro il golpe e Putin è con Eltsin. L’atteggiamento deciso di Eltsin fa fallire il golpe. Gorbaciov viene destituito da Eltsin, che decreta la fine dell’Urss e del Pcus” (G. Sangiuliano, cit., p. 101-103).
Putin è tentato di lasciare il Kgb e di darsi alla carriera universitaria come assistente del suo vecchio professore Sobcak, il più grande giurista russo, che nel 1990 diventa sindaco di Leningrado con Putin come vice-sindaco. Ma nel 1993 scatta un secondo golpe dei vetero-comunisti contro Eltsin e Sobcak. Nelle ore più critiche Sobcak è asserragliato nella dacia di Eltsin nei pressi di Mosca, ma l’arresto di Eltsin fallisce 2 volte (il comunismo sovietico è veramente in crisi). Putin torna urgentemente a Leningrado oramai chiamata San Pietroburgo.
“Raccoglie uomini armati e li schiera in aeroporto” (G. Sangiuliano, cit., p. 114).
Il golpe fallisce grazie “alla reazione militare efficiente. Eltsin ordina l’assalto delle forze speciali del Gruppo Alfa, tra gli assalitori c’è un reparto speciale, il tradizionale corpo delle teste di cuoio russe, giunte da San Pietroburgo. A coordinare il trasferimento e a curarne la logistica è l’ex tenente colonnello Vladìmir Putin” (G. Sangiuliano, cit., p. 137).
La conversione di Putin
Putin-convNel 1991 la dacia della famiglia Putin prende fuoco. Dentro erano rimaste Maria, la figlia maggiore, e la segretaria di Putin (allora vice-sindaco di San Pietroburgo).
Putin entrò nella casa in fiamme, prese la figlia e la scaraventò oltre il balcone tra le braccia di alcune persone accorse che l’afferrarono al volo, poi aiutò la segretaria a scendere grazie a delle lenzuola strappate ed incordate. Però commise un’imprudenza: rientrò nella dacia oramai riempita di fumi tossici per riprendere una borsa in cui aveva tutti i suoi risparmi, ma non vi riuscì e per ritrovare l’uscita dovette avvolgersi in una coperta che gli aveva regalato sua madre, la quale la riteneva benedetta. Quindi saltò fuori un secondo prima che tutto crollasse.
“A questo episodio si attribuisce la conversione di Putin, anche se era già stato battezzato, alla religione cristiana ortodossa” (G. Sangiuliano, cit., p. 129).
Gli oligarchi e la mafia russa si impadroniscono della famiglia Eltsin
La Russia, però, finito il rigore sovietico, entrava in uno stato ancora incerto e indefinito in cui Eltsin, caduto vittima dell’alcolismo, della malattia e delle brame delle sue figlie era finito nelle braccia di alcuni speculatori (oligarchi) che avevano iniziato a comperare a quattro soldi i colossi dell’industria russa. Inoltre la mafia aveva iniziato ad approfittare di questo stato di assenza di autorità ed era penetrata nei gangli vitali dello Stato e dell’economia.
Sobcak era un uomo di cultura ma non di governo e non fu capace di rimediare, appariva scollegato dalla realtà. Gennaro Sangiuliano paragona la Russia dei primi anni Novanta alla Palermo degli anni Settanta, affetta da due gravi malattie: il capitalismo sfrenato e sregolato e la criminalità organizzata che cerca di rimpiazzare lo Stato.
L’unica uomo politico capace di affrontare una situazione del genere era Vladìmir Putin.
“Eltsin ha avuto indubbi meriti storici e nel contempo incontestabili demeriti. È stato l’uomo che difese la Russia dai rigurgiti di stalinismo, ma che consentì un autentico Far West economico-sociale. […]. Eltsin riteneva che la Russia potesse diventare un’economia di mercato come gli Usa ed affidava la direzione dell’economia a quegli economisti che venivano definiti neo-Chicago boys leningradesi, guidati da Egor Gajdar e Anatolij Cubais [nemico acerrimo di Putin perché non lo ritiene manipolabile], che propugnavano una terapia shock secondo le teorie ultra-liberiste” (G. Sangiuliano, cit., p. 138).
Gli oligarchi che hanno avvinghiato Eltsin e la sua famiglia sono Boris Berezovskij, Vladìmir Gusinkij, Michail Khodorkovskij, Alexey Mordaschov, Oleg Deripaska, Roman Abramovich … non sono estranei a questa strategia alcuni centri di potere internazionale: a Mosca arrivano gli emissari di alcune grandi banche americane…
Nel 1996 la salute barcollante di Eltsin tracolla. Nel 1998 arriva alla Russia un sostegno finanziario del Fondo Monetario Internazionale (FMI) di 11 miliardi di dollari, un anno dopo un’indagine della Corte dei Conti russa dimostrerà come gran parte di quei dollari, invece di andare a sostegno dell’agonizzante economia russa, fossero finiti nelle casse di 27 banche commerciali, molte delle quali non russe… Dunque il sostegno alla Russia si era rivelato soltanto un aiuto alle banche americane ed europee e magari a qualche oligarca “russo” di origine israelitica (G. Sangiuliano, cit., p. 147-148).
“Il 25 luglio 1998 Putin viene nominato direttore del nuovo Kgb (Fsb), ma l’Fsb non ha più il potere di una volta, anzi molti suoi agenti sono al servizio degli oligarchi o della mafia russa” (G. Sangiuliano, cit., p. 151).
In questo periodo Sobcak era caduto in oblio, ma Putin non si è scordato di lui e lo fa espatriare in Francia. Uno dei tratti salienti del suo carattere è che non si abbandona un amico soprattutto se è caduto in disgrazia.
Il 9 agosto del 1999 Eltsin, che, malgrado la dipendenza dall’alcol e la cattiva famiglia che lo circonda, mantiene un barlume di buon senso e di amor patrio, nomina Putin primo viceministro. Infatti capisce che oramai lui è finito come uomo e come leader e comprende che solo Putin ha la forza, l’intelligenza e il coraggio per affrontare gli oligarchi “russi” e la mafia che ha invaso l’intera società russa.
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La guerra contro l’islamismo ceceno
Il 13 settembre 1999 a Mosca salta in aria un intero palazzo, in cui abitano le famiglie dei poliziotti russi. Si tratta di terrorismo. La responsabilità è dei ceceni islamisti. La risposta di Eltsin è durissima, ma chi prende in mano le redini della reazione è Putin, che pronuncia una frase rimasta famosa:
“è inutile che si nascondano, li inseguiremo ovunque fuggano, ovunque si vadano a nascondere. Anche nel cesso. E li ammazzeremo nel cesso” (G. Sangiuliano, cit., p. 168).
ramzan-kadyrovInizia la tragica partita tra la Russia e gli indipendentisti ceceni di matrice islamistica. Nel 1991 la Cecenia approfittando della debolezza della Russia proclama la sua totale indipendenza da Mosca. Nel 1994 Eltsin invia 40 mila soldati in Cecenia per riprendersela, ma l’Armata Rossa è oramai un fantasma e dopo 2 anni Eltsin è costretto a riconoscere l’indipendenza della Cecenia.
Putin, divenuto da poco capo del governo, capisce che la questione cecena è cruciale per la sopravvivenza della Russia. Inizia quindi un massiccio uso dell’aviazione, che bombarda le postazioni dei guerriglieri ceceni. Gli attacchi ora sono massicci e brutali. Il 25 agosto 1996 i generali russi annunziano la sconfitta e l’eliminazione di oltre mille guerriglieri ceceni.
Putin dichiara: “ero convinto che se non avessimo fermato i guerriglieri sùbito, saremmo finiti per diventare una seconda Jugoslavia. Era necessario riprendere il Daghestan e buttare fuori i guerriglieri ceceni” (G. Sangiuliano, cit., p. 173).
La seconda guerra ingaggiata da Putin è quella contro gli oligarchi. Egli…
“non solo non vuole farsi manipolare dagli oligarchi, ma decide che è giunto il tempo di sganciarsi da loro” (G. Sangiuliano, cit., p. 176).
Eltsin è ancora de jure il capo, ma deve cedere il potere poiché non è più in grado di esercitarlo, oramai schiavo dell’alcol, degli oligarchi e della mafia russa (che è una specie di braccio armato dell’oligarchia neo-liberistica “russa”).
L’Occidente, però, non vuole che il potere passi a Putin, il quale farebbe gli interessi della Russia. Tuttavia il potere dovrebbe essere esercitato, se non da Putin, dai “democratici”, che sono sognatori e incompetenti; nella migliore delle ipotesi sarebbe un ritorno all’era Gorbaciov.
Allora intervengono Sacharov e Zinoviev che assieme a Solgenitsin spingono l’opinione pubblica alla rivolta contro l’americanizzazione e la globalizzazione della Russia (G. Sangiuliano, cit., p. 181).
Eltsin mantiene ancora un briciolo di amor patrio e di buon senso. Quindi il 31 dicembre del 1999 cede a Putin il potere reale:
“due colonnelli delle Forze strategiche missilistiche raggiungono Putin nel suo ufficio di vice premier e gli consegnano i codici di lancio delle armi nucleari. È il vero scettro del potere” (G. Sangiuliano, cit., p. 182).
Sùbito dopo Eltsin annuncia le sue dimissioni anticipate.
Gennaro Sangiuliano scrive che il “conservatorismo” putiniano è assai diverso dal neo-conservatorismo liberista statunitense. Infatti per Putin la base della vita politica della Russia deve essere la tradizione sociale, culturale e religiosa russa e non un richiamarsi genericamente ai valori liberal-democratici dell’Occidente.
«Il giorno della Pasqua ortodossa, con tutta la famiglia, è nella cattedrale di Sant’Isacco a San Pietroburgo. Inaugura così una consuetudine che lo vedrà presente, negli anni, a tutte le funzioni religiose. “Se la Russia è diventata grande”, ripete Putin, “non è per uno zar, per una guerra o per un partito politico, il merito è del Cristianesimo”» (G. Sangiuliano, cit., p. 188-189).
La guerra agli oligarchi apolidi e mondialisti
Putin dà questa definizione dell’oligarca: “esponente dell’alta finanza, che vuole influenzare la politica, rimanendo nell’ombra” (G. Sangiuliano, cit., p. 198);
in breve: un appartenente ad una società segreta, che tramite la finanza dirige i politici e il mondo.
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I tre nemici di Putin, rappresentati dall’oligarca, sono
  • le sette segrete,
  • l’alta finanza apolide che cerca il guadagno e la ricchezza come fine e
  • il mondialismo che governa il mondo intero tramite lo strapotere della finanza bancaria sulla politica.
Se si legge attentamente il paragrafo (pp. 198-208) che Sangiuliano riserva agli oligarchi “russi” con i quali Putin è entrato in conflitto si capisce che essi son quasi tutti di origine israelitica, e si sono impadroniti – con l’aiuto della malavita organizzata – dell’industria, dei mass media e delle banche russe per dominare da dietro le quinte la Russia intera e per farla confluire nel calderone del Nuovo Ordine Mondiale, diretto dagli Usa e Israele, dalle banche e dalla massoneria.
La lotta è iniziata nel 1996 ed è finita con la vittoria di Putin nel 2013 senza esclusione di colpi, anche cruenti.
Putin insiste sul fatto che un Paese per restare in piedi deve riscoprire la propria origine religiosa che in Russia è cristiana, la quale dà ai cittadini le basi morali per vivere rettamente. Inoltre non si possono ignorare le proprie tradizioni culturali e storiche, che per la Russia non sono né atlantiche né islamiche.
La forza di una Nazione è intellettuale, morale e spirituale. Essa deve fondarsi su famiglie unite, numerose, moralmente ordinate e religiose.
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Conclusione
Nel disordine mondiale odierno Putin incarna (per quanto l’umana fragilità possa permettere) la forza sana che:
  • 1°) resiste alla globalizzazione;
  • 2°) ha scongiurato la restaurazione del comunismo in Russia;
  • 3°) ha anticipato di un ventennio l’attuale lotta contro l’Isis, avendo stroncato nel 1996 la Cecenia islamica,che avrebbe minacciato la sicurezza non solo russa ma mondiale;
  • 4°) combatte la democrazia libertaria occidentale,che dimentica le sue tradizioni culturali e religiose;
  • 5°) prevede che essa porterà al crollo dell’Occidente atlantico, poiché ha tagliato (come aveva fatto il bolscevismo nel 1917) le sue radici culturali e religiose e un albero senza radici secca;
  • 6°) ha capito,sin dagli anni Settanta,la reale situazione di degrado dell’Urss opposta ad una facciata puramente esteriore di potenza inesistente de facto;
  • 7°) capisce molto bene, perciò,oggi che la situazione di grandezza degli Usa/UE è del tutto apparente: la deficienza culturale, morale, spirituale e conseguentemente economico/finanziaria dell’occidente è il cancro che lo ha roso interiormente lasciandone intatta solo l’apparenza:il sistema occidentale è marcio(come quello sovietico nel Settanta) e non reggerà a lungo;
  • 8°) ha lottato contro l’alta finanza apolide mondialista, che voleva impossessarsi della Russia, e dà, così, un esempio all’occidente perché capisca qual è il vero nemico delle nazioni e delle patrie;
  • 9°) non era desiderato dall’America al potere della Russia poiché avrebbe fatto gli interessi della sua Patria e non del Nuovo Ordine Mondiale, ma al suo fianco sono intervenuti Sacharov, Zinoviev e Solgenitsin (la forza dei veri “intellettuali” che mancano all’occidente che si dibatte tra Charlie e Bataclan) che hanno convinto l’opinione pubblica alla rivolta contro la globalizzazione della Russia;
  • 10°) ha tre grandi nemici spietati e potentissimi poiché diabolici: le sette segrete, l’alta finanza apolide e il mondialismo;
  • 11°) in breve, per riassumere, Putin insiste sul fatto che un Paese per restare in piedi deve riscoprire la propria origine religiosa, la quale dà ai cittadini le basi morali per vivere rettamente. Infatti non si possono ignorare le proprie tradizioni culturali e storiche, che per la Russia non sono né atlantiche né islamiche, senza conseguenze catastrofiche. La forza di una Nazione è intellettuale, morale e spirituale. Essa deve fondarsi su famiglie unite, numerose, moralmente ordinate e religiose. Queste son le lezioni e gli aiuti che Putin offre al povero mondo contemporaneo ammalato terminale di agnosticismo e amoralismo.
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È significativa la frase pronunciata da Putin il 4 dicembre 2105 all’Assemblea Federale Russa:
“La nostra forza è nell’unità, nella combattività. Nell’attaccamento alla famiglia, nello sviluppo demografico, nel progresso della nostra vita interiore”.
d. Curzio Nitoglia
11/1/2016

http://doncurzionitoglia.net/2016/01/11/putin-modus-operandi/




LA STRANA TEOLOGIA DI RATZINGER
 da SISINONO, Anno XXXV n. 6, del 31 Marzo 2009



 
La speculazione teologica di Ratzinger (come dottore privato) è assai vasta e multiforme. Essa spazia dal primato della coscienza alla patristica, specialmente agostiniano-bonaventuriana, in funzione anti-scolastica; dalla collegialità in funzione anti-monarchica nel governo della Chiesa al concetto di libertà kantianamente inteso; dal dialogo inter-religioso all’escatologia. Ma i due pilastri fondanti sembrano essere la considerazione del rapporto cristianesimo-giudaismo e la teologia della storia in San Bonaventura, letta con un forte accento gioachimita.
 
1) Radici ebraiche del cristianesimo secondo Ratzinger
Abbiamo già visto (sì sì no no 15 marzo 2009, pp.1-6) i rapporti di Ratzinger con la Comunità Cattolica d’Integrazione (CCI) che datano dal 1972. Nel 1997 l’allora card. Ratzinger, nell’introduzione al libro qui citato in nota n.1, scriveva: «L’altro grande tema che acquista sempre più rilievo in ambito teologico è la questione del rapporto tra Chiesa e Israele. La consapevolezza di una colpa, a lungo rimossa, che grava sulla coscienza cristiana dopo i terribili eventi dei dodici funesti anni dal 1933 al 1945, è senza dubbio una delle ragioni primarie dell’ urgenza con cui tale questione è oggi sentita» . L’interesse del Nostro per i rapporti tra Chiesa e Israele risale, come dice lui stesso, al 1947-1948, quando studiava teologia a Monaco sotto la direzione del professor Gottlieb Sönghen, di cui abbiamo già parlato (sì sì no no cit.). L’ importanza della “shoah’ nello sviluppo della sua teologia giudaico-cristiana è fondamentale e risale ai suoi primi venti anni. Onde erreremmo se volessimo vedere nel suo penchant verso l’olocaustimo ebraico, una novità, dovuta – magari – alle pressioni delle lobby giudaico-americaniste o allo scoppiar del “caso Williamson”.
* * *
L’incipit del libro “Molte religioni un’unica Alleanza” è significativo: «Dopo Auschwitz il compito della riconciliazione e dell’accoglienza si è presentato davanti a noi in tutta la sua imprescindibile necessità» . A pagina 14 Ratzinger cita il testo del Vangelo di San Giovanni (IV, 22) “La salvezza viene dai giudei”, e lo applica erroneamente ai rapporti tra ebraismo post-biblico e Cristianesimo. Questa frase di Gesù alla samaritana presso il pozzo di Giacobbe riguarda, invece, la querelle di quel tempo tra giudei e samaritani. Questi, infatti, nel 722 a. C. avevano fatto scisma dalla Giudea ed avevano accolto le usanze e le superstizioni dei Popoli pagani e politeisti che li avevano invasi, corrompendo la purezza della Fede abramitica o dell’Antico Testamento per dar luogo ad una falsa religione sincretistica. Alla domanda della samaritana se la vera Fede sia quella del Tempio di Gerusalemme o quella dei samaritani che sul monte Garizìm, riguardato come sacro, celebravano i loro riti, Gesù risponde che nell’ Antica Alleanza la vera Fede è quella dei Giudei (salus ex judaeis) che adorano Dio in Gerusalemme come Dio stesso aveva prescritto nel Pentateuco, ma aggiunge anche che si avvicina l’ora [Nuova Alleanza, nda], anzi è già venuta “in cui si adorerà Dio in spirito e verità” (col sacrificio della Messa, in tutto il mondo) e allora né su questo monte né in Gerusalemme adorerete il Padre” [cessazione dell’Antica Alleanza]. Ora, dire che la salvezza oggi, dopo il Sacrificio di Cristo, viene – come scriveva anche Léon Bloy – ancora dai Giudei, è oggettivamente falso ed è contrario a ciò che ha rivelato realmente Gesù nel Vangelo di Giovanni.
Ratzinger, invece, dopo aver citato Giovanni IV, 22 afferma: «Questa origine [“la salvezza viene dai giudei”] mantiene vivo il suo valore nel presente» (ivi), anche se poi aggiunge, contraddicendosi com’è suo costume: «non vi può essere nessun accesso a Gesù […], senza l’ accettazione credente della rivelazione di Dio […], che i cristiani chiamano Antico Testamento» (ivi). La sua frase precedente, però, dice-va che la salvezza viene ancora oggi dai Giudei, e non dall’Antico Testamento, il quale non è certamente il cuore del giudaismo post-biblico, poiché l’ Antico Testamento è tutto relativo a Cristo e quindi al Nuovo Testamento, che i Giudei di oggi rifiutano ostinatamente come i loro antenati. Purtroppo tutto il pensiero di Ratzinger è una “coincidentia oppositorum” e questa è anche l’essenza del modernismo come l’ha descritta San Pio X nella Pascendi (1907): “leggi una pagina di un libro modernista ed è cattolica, giri la pagina ed è razionalista”. In Ratzinger ciò avviene persino passando da una frase a quella successiva.
La conclusione pratica della teologia giudaico-cristiana, nata dopo la riflessione sulla “shoah” è – secondo Ratzinger – la seguente: «Ebrei e cristiani debbono accogliersi reciprocamente in una più profonda riconciliazione, senza nulla togliere alla loro fede e, tanto meno, senza rinnegarla ma anzi a partire dal fondo di questa stessa fede. Nella loro reciproca riconciliazione essi dovrebbero divenire per il mondo una forza di pace. Mediante la loro testimonianza davanti all’unico Dio…» . Ora, come può un cristiano, che crede nella SS. Trinità e nella divinità di Cristo, accogliere “a partire dal fondo di questa stessa fede” l’ebraismo che nega recisamente la SS. Trinità e la divinità di Cristo? Solo la dialettica hegeliana, la coincidentia oppositorum cusano-spinoziana lo permettono. Ma la retta ragione, il principio per sé noto di identità e non contraddizione ed inoltre la divina Rivelazione lo negano.
* * *
Per quanto riguarda i rapporti tra Antica e Nuova Alleanza, le cose si complicano. Infatti Ratzinger scrive che il termine “Testamentum” (Testamento), usato dall’antica versione latina e reso poi da San Girolamo con “foedus” o “pactum” (Alleanza o Patto), non è stata una scelta propriamente corretta per tradurre la parola ebraica berìt. I traduttori greci della Bibbia ebraica (traduzione dei Settanta) l’hanno resa, infatti, quasi sempre (267 passi su 287) non con l’equivalente greco di “patto” o “alleanza” (syn-theke), ma bensì con il termine dia-theke, che vuol dire non “un accordo reciproco” , ma «una disposizione in cui non sono due volontà a mettersi d’ accordo, ma vi è una volontà che stabilisce un ordinamento» . Sembrerebbe cosa di poco conto. Invece Ratzinger, a partire da questa distinzione, arriva – come vedremo – a formulare la teoria che l’Antica Alleanza non è mai cessata: poiché berìt, reso con Alleanza in latino, significa solo volontà divina e non comporta la corrispondenza umana, Dio ha mantenuto l’Alleanza con Israele, anche se questo è stato infedele. Ratzinger, infatti, scrive: «Ciò che noi chiamiamo “Alleanza”, nella Bibbia, non è concepito come un rapporto simmetrico tra due partner che stabiliscono tra loro una relazione contrattuale paritetica con obblighi e sanzioni reciproche. […] l’’ “alleanza” non è un contratto che impegna a un rapporto di reciprocità, ma un dono, un atto creativo dell’amore di Dio» . E cita San Paolo (2 Cor. III, 4-18  e Gal. IV, 21-31 ), nel quale si trova la «contrapposizione più netta tra i due Testamenti» , mentre, quando parla di Alleanza (Ebr., XIII, 20), usa il termine di «alleanza “eonica” , cioè eterna, con una terminologia che è ripresa dal Canone romano [della Messa]» . Ratzinger specifica che, se San Paolo nella seconda lettera ai Corinzi «pone in netta antitesi l’Alleanza instaurata da Cristo e quella di Mosè», le cose vanno diversamente tra Abramo e Cristo. Infatti «nel nono capitolo della lettera ai Romani» San Paolo utilizza non più il termine Patto o Testamento, ma Alleanza al plurale e Ratzinger commenta: «l’Antico Testamento conosce tre alleanze: il sabato, l’ arcobaleno, la circoncisione […]. L’ alleanza con Abramo [San Paolo] la vede come l’alleanza vera e propria, fondamentale e permanente, mentre quella con Mosè “è sopraggiunta in seguito” (Rm., V, 20), 430 anni dopo quella con Abramo (Gal.3,17) e non ha affatto privato quest’ultima del suo valore» . Quindi il Patto o il Testamento stipulato da Dio con Mosè (1330 a. C.) è transitorio e non eterno, mentre l’Alleanza stipulata con Abramo (1900 a. C.) è permanente ed eterna! Perciò l’Antica Alleanza con Abramo sussiste ancora, non è mai cessata. Ma – osserviamo – quando gli ebrei increduli asseriscono di avere per padre Abramo, Gesù risponde loro che Abramo lo è solo carnalmente, poiché egli credeva nel Messia venturo, mentre loro lo vogliono uccidere, quindi il loro padre spirituale è il diavolo (Gv., VIII, 42) e aggiunge: “Chi è da Dio ascolta le parole di Dio; ecco perché voi non le ascoltate: perché non siete da Dio” (Gv.VIII, 47). Ora come conciliare la Rivelazione del Vangelo di san Giovanni con l’ interpretazione ratzingeriana, secondo la quale Abramo sarebbe tuttora padre degli increduli ebrei post-biblici, dacché l’Alleanza stipulata da Dio con lui è eterna? Certo, si può rispondere che essa è eterna nel momento in cui è vissuta nella Fede di Abramo nel Messia Gesù Cristo, onde l’Alleanza con Abramo continua in quella Nuova ed eterna, a cui era finalizzata, ed è perfezionata e realizzata da questa nel Sangue di Cristo. Ma gli ebrei post-biblici, che rifiutano Cristo Dio e la SS. Trinità, non sono in Alleanza né con Abramo né con Dio, come afferma Gesù nel Vangelo di San Giovanni. Ratzinger, però, asserisce il contrario: «con questa distinzione [tra alleanza abramitica e alleanza mosaica] viene meno la rigida contrapposizione tra Antica e Nuova Alleanza e si esplicita l’unità […] della storia della salvezza, in cui nelle diverse alleanze si realizza l’unica Alleanza» , onde l’ebraismo odierno, benché incredulo, sarebbe tuttora in Alleanza eterna con Dio tramite Abramo (e non Mosè). Ma anche ciò è falso, benché Ratzinger cerchi – distinguendo tra Mosè ed Abramo – di dare un fondamento più solido alla teoria di Giovanni Paolo II dell’«Antica Alleanza mai revocata» (Mainz, 1981).
* * *
Da notare che per Ratzinger non solo l’alleanza di Dio con gli israeliti in Abramo, ma anche l’alleanza di Dio con tutti gli uomini in Gesù Cristo è “incondizionata” cioè non “legata alla condotta degli uomini” perché “Dio, per la sua stessa essenza, non può lasciar cadere l’alleanza, per quanto essa venga rotta”  e perciò dinanzi all’infedeltà degli israeliti, così come dinanzi all’infedeltà dei “cristiani, Egli la “rinnova” nel senso che “l’alleanza condizionata, che dipende dalla fedeltà dell’uomo alla Legge e che per questo è stata spezzata, viene sostituita dall’alleanza incon-dizionata in cui Dio s’impegna irrevocabilmente”. Questo “rinnovamento dell’ alleanza” è, per i Cristiani, la S. Messa.     
“Deus non deserit nisi prius deseratur” (“Dio non abbandona, se prima non è abbandonato”) dice Sant’ Agostino, ripreso dal Concilio di Trento. Anche la Nuova ed Eterna Alleanza (come già l’Alleanza abramitica) è un patto bilaterale condizionato. Essa è eterna ed irrevocabile solo con la Chiesa di Roma; ma non con ogni uomo: i doni di Dio “sono irrevocabili” a condi-zione che l’uomo Gli resti fedele. Per Fede sappiamo che “le porte dell’Inferno non prevarranno” contro la Chiesa; ma nessun uomo sa “se sia degno di odio o di amore”, ossia la perseveranza finale è qualcosa che non è garantita a nessun uomo in particolare: se rompe con Dio, egli è abbandonato da Dio. La Chiesa soltanto, nata dal costato di Cristo, ha la promessa formale dell’ indefettibilità e della perseveranza usque ad finem, in vir-tù del Sangue di Cristo, ma non ha questa promessa Israele in virtù dei meriti di Abramo. 
In realtà, Ratzinger (come dottore privato) fonda, purtroppo, la sua distinzione su Martin Lutero. Infatti, per lui, la nuova ed eterna alleanza “risulta nuova” appunto perché “non si tratta di un patto a certe condizioni, ma del dono dell’ amicizia [di Dio] che viene irrevocabilmente offerta. Al posto della Legge subentra la grazia. La riscoperta della teologia paolina nella Riforma [luterana] ha posto particolarmente l’accento su questo aspetto: non le opere ma la fede; non ciò che l’uomo fa, ma il libero disporre della bontà di Dio. […]. Le espressioni riferite all’ esclusività dell’azione di Dio, vale a dire quelle contenente l’aggettivo solus (solus Deus, solus Christus), sono da intendersi in questo contesto” . Peccato, però, che san Giacomo ha scritto, sotto divina ispirazione: “la Fede senza le Opere è morta” (II, 26) e che il concilio di Trento ha definito questa verità de Fide catholica! (Sess. VI, cc. 6-7). La “teologia” di Lutero è la negazione e la distruzione della vera Religione (da religare ossia unire l’uomo a Dio), dacché Lutero diceva “pecca fortiter, sed fortius crede”, ma il peccato separa da Dio e non unisce a Lui. La “speranza sfiduciale” luterana è la “presunzione di salvarsi senza meriti”, che porta all’«impenitenza finale» ed è un “peccato contro lo Spirito Santo”. San Paolo non ha mai voluto insegnare l’inutilità delle “Opere buone” (ossia osservare i 10 Comandamenti), anzi insegna che la carità o stato di grazia è conditio sine qua non per entrare in Cielo: “se avessi la Fede che sposta le montagne, ma non ho la carità sono un nulla” (1 Cor., 13, 2). L’Apostolo, quando insegna che la giustificazione non si consegue con le opere della Legge, ma per la fede in Cristo (cfr. Gal. 2,3), parla non della Legge divina, ma delle osservanze rituali, delle prescrizioni legali e cerimoniali della legislazione mosaica, riservate al popolo ebreo per prepararlo a Cristo (“pedagogo a Cristo”), ma per le quali il fariseismo imperante si lusingava di poter raggiungere la salvezza senza la fede in Cristo e senza la Sua grazia. 
* * *
Tutta la teologia ratzingeriana è un tentativo di conciliare l’ inconciliabile nell’ottica cusana della coincidentia oppositorum; metaforicamente essa è l’ossimoro o l’ircocervo di Pera e Croce (v. sì sì no no 15 marzo 2009) e le “convergenze parallele” di Aldo Moro. Infatti nella parte finale del suo libro Ratzinger cita esattamente il De pace Fidei di Niccolò da Cusa (1453), in cui «Cristo come logos universale [cfr. il “cristo cosmico” di Teilhard de Chardin, nda] convoca un concilio celeste [cfr. il concilio Vaticano II, nda] , perché lo scandalo della molteplicità delle religioni sulla terra è divenuto intollerabile» .
Lo stesso Ratzinger spiega che il cammino del movimento ecumenico cominciò nel XIX presso i protestanti, poi vi si avvicinò l’ortodossia e infine «l’avvicinamento della Chiesa cattolica cominciò da alcuni gruppi di Paesi in cui si soffriva maggiormente la divisione tra le Chiese, finché il concilio Vaticano II aprì le porte della Chiesa alla ricerca dell’unità di tutti i cristiani» . Onde, per Ratzinger (1997) – oggettivamente – tra Concilio e Tradizione non vi è continuità, ma rottura, anche se – soggettivamente o ermeneuticamente – Benedetto XVI (2005) ce la vuol vedere.
Come si evince da quanto sopra, la teologia del giudeo-cristianesimo è congenere a Ratzinger e a Benedetto XVI (come dottore privato). Per capire la sua reazione davanti alla montatura del “caso Williamson” non si deve guardare alla persona del monsignore “incriminato”, ma alla dottrina giudaizzante del Pontefice modernizzante. Ci sembra, pertanto, inutile, se non pericoloso, andare a dialogare con lui (o chi per lui) e a tal fine “gettare a mare Giona”.
 
2) Teologia della storia e gioachimismo in Ratzinger
Sempre con lo stesso professore Sönghen il giovane Ratzinger fece la sua Tesi di laurea su san Bonaventura (che era di Viterbo e non di “Fiuggi”) nel 1956-1957, appena dieci anni dopo la svolta di Auschwitz, tesi in cui appare la sua concezione di Dio e del dogma, considerati non oggettivamente, ma storicamente e soggettivamente e per di più visti (cfr. sì sì no no cit.) in un’ottica tendenzialmente e moderatamente millenarista. Questa tesi è stata rieditata dalle Edizioni Porziuncola sotto il titolo San Bonaventura /La teologia della storia.
Secondo il Nostro, San Bonaventura studia Gioacchino da Fiore come Generale dell’Ordine francescano, “che era quasi giunto al suo punto di rottura a causa della questione gioachimita”, più che come teologo privato, ma, nonostante ciò, «Gioacchino viene interpretato all’ interno della tradizione, mentre i gioachimiti lo interpretarono contro la tradizione. Bonaventura non rifiuta totalmente Gioacchino (come aveva fatto Tommaso): egli lo interpreta piuttosto in modo ecclesiale, creando così un’alternativa ai gioachimiti radicali» . Come si vede l’ idea della “ermeneutica della continuità” è congenere anch’essa al giovane e al vecchio Ratzinger (1956-2005). Ratzinger riconosce che «l’ idea di un nuovo ordine, in cui l’ ecclesia contemplativa degli ultimi tempi deve trovare la sua vera e definitiva forma d’esistenza, viene chiaramente espressa in Gioacchino da Fiore. Il concetto di “ordine” acquista così un nuovo significato e “novus ordo” […] potrebbe tradursi allora come “nuovo ordine salvifico” e “nuovo ordine religioso della società”. […] Si potrebbe forse rendere “novus ordo” persino come “nuovo popolo di Dio”» . Insomma se San Tommaso ha confutato radicalmente la teologia della storia di Gioacchino, «il Dottor Serafico [ha, secondo Ratzinger] un atteggiamento più positivo nei confronti della teologia gioachimita della storia» .
 
Confutazione tomistica del Gioachimismo
San Tommaso d’Aquino confuta meglio di ogni altro gli errori millenaristi e tendenzialmente giudaizzanti di Gioacchino e della sua scuola. Nella Somma Teologica dimostra che la Nuova Alleanza durerà sino alla fine del mondo (S. Th., I-II, q. 106, a. 4). Infatti, la Nuova Alleanza è succeduta alla Vecchia, come il più perfetto al meno perfetto. Ora, nello stato della vita umana in questo mondo, nulla può essere più perfetto di Cristo e della Nuova Legge, poiché qualcosa è perfetto in quanto si avvicina al suo fine. Ora, Cristo ci introduce – grazie alla sua Incarnazione e morte – in Cielo. Quindi, non vi può essere – su questa terra – nulla di più per-fetto di Gesù e della sua Chiesa.
Per quanto riguarda lo Spirito Santo come perfezionatore dell’ opera della Redenzione di Cristo, Esso è inviato proprio da Cristo per confessare Cristo stesso, che ha promesso formalmente ai suoi Apostoli: “Lo Spirito Santo che Io vi manderò, procedendo dal Padre, renderà testimonianza di Me”. Quindi il Paraclito non è l’iniziatore di una terza èra, come vorrebbe il gioachimismo, ma testimonia e spiega Cristo agli uomini e li rafforza per poterlo imitare. Onde, dopo l’Antica e la Nuova Legge, su questa terra non vi sarà una terza Alleanza, ma il terzo stato sarà quello dell’eternità, sempre felice del Cielo o sempre infelice nell’ Inferno. Gioacchino erra nel trasportare la realtà ultramondana o eterna su questa terra. Il Regno, di cui parla l’abate da Fiore, non riguarda questo mondo, ma l’aldilà. Infatti lo Spirito Santo ha spiegato agli Apostoli, (il giorno di Pentecoste del 33 d.C.) tutta la verità che Cristo aveva predicato e che loro non avevano ancora capito appieno. Il Paraclito non deve insegnare una nuovissima Legge o un altro Vangelo più spirituale di quello di Cristo, ma deve solo illuminare e dar forza per ben conoscere e ben vivere la dottrina cristiana, che ha perfezionata quella mosaica (S. Th., I-II, q. 106, a. 4). Inoltre come la Vecchia Legge non fu solo del Padre, ma anche del Figlio (prefigurato da Mosè); così pure la Nuova Legge non fu solo del Figlio, ma anche dello Spirito promesso e inviato da Cristo ai suoi Apostoli. La Legge di Cristo scritta nei nostri cuori (Geremia) è la Grazia dello Spirito Santo, che illumina, vivifica e irrobustisce per potere osservare la Legge divina. Così come già nell’Antico Testamento era la grazia dello Spirito Santo ad illuminare e corroborare i Patriarchi e i Profeti, i quali, pur vivendo sotto la Vecchia Legge, avevano già lo spirito della Nuova e la vivevano eroicamente. 


Quando Gesù insegna agli Apostoli che “Il Regno dei Cieli è vicino”, non si riferisce – spiega san Tommaso – solo alla distruzione di Gerusalemme come termine definitivo della Vecchia Alleanza e inizio formale della Nuova, ma anche alla fine del mondo (S. Th., I-II, q. 6, a. 4, ad 4; III, q. 34, a. 1, ad 1; III, q. 7, a. 4, ad 3-4). Infatti il Vangelo di Cristo è la “Buona Novella” del Regno (ancora imperfetto) della ‘Chiesa militante’ su questa terra; e del Regno (oramai e per sempre perfetto) della “Chiesa trionfante” nei Cieli. Inoltre, nel Commento a Matteo sul discorso escatologico di Gesù (XXIV, 36), san Tommaso postilla: “Qualcuno potrebbe credere che questo discorso di Cristo, riguardi solo la fine di Gerusalemme…; però sarebbe un grosso errore riferire tutto quanto è stato detto solo alla distruzione della Città santa e quindi la spiegazione è diversa, … cioè che tutti gli uomini e i fedeli in Cristo sono una sola generazione e che il genere umano e la fede cristiana durerà sino alla fine del mondo” (Expos. In Matth. c. XXIV, 34). L’ Angelico si basa su tale testo per confutare l’errore gioachimita, secondo il quale la Nuova Alleanza o la Chiesa di Cristo non durerà sino alla fine di tempi; egli riprende l’insegnamento patristico (specialmente del Crisostomo e di s. Gregorio Magno) e lo sviluppa anche nella Somma Teologica (I-II, q. 106, a. 4, sed contra): il Cristianesimo durerà sino alla fine del mondo, e perciò non ci sarà bisogno di una “terza Alleanza pneumatica e universale” (Catolikòs), ma la Chiesa di Cristo è già il Regno del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo (con buona pace di Gioacchino e seguaci).
Non occorre sognare il rimpiazzamento del cristianesimo, basta solo viverlo sempre più intensamente .
 da SISINONO, Anno XXXV n. 6, del 31 Marzo 2009 

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