giovedì 6 dicembre 2012

La ragion d'essere della Fraternità Sacerdotale San Pio X

La ragion d'essere della
Fraternità Sacerdotale San Pio X




Tratto da: http://www.unavox.it/ArtDiversi/DIV365_La_ragion_d-essere_della_FSSPX_1.html

                                                             (prima parte)


di Belvecchio


Il titolo potrebbe far pensare a chissà quale analisi teologico-ecclesiale, ma non è così.
Chi scrive non è membro della Fraternità, che è una congregazione prettamente religiosa, quindi non saranno gli Statuti della Fraternità che verranno presi in esame, né la mens del suo Fondatore, il compianto Mons. Marcel Lefebvre.
Chi scrive è un semplice fedele cattolico che, grazie a Dio, gode da anni del ministero dei vescovi e dei sacerdoti della Fraternità Sacerdotale San Pio X per cercare di rimanere fedele agli insegnamenti di Nostro Signore e alla Sua Santa Chiesa, e di provare a salvare la propria anima, con l’aiuto di Dio.

In effetti, proprio il punto di vista del semplice fedele può delineare quale sia stato e quale continui ad essere la vera “ragion d’essere della Fraternità”. Punto di vista che non esclude l’altro propriamente interno alla Fraternità, ma che lo comprende in qualche modo, perché il vero senso dell’esistenza di una congregazione religiosa è legato allo scopo principale della Chiesa stessa: la salus animarum.

Quando Mons. Lefebvre fondò la Fraternità San Pio X ebbe in vista la necessità della continuazione del vero sacerdozio cattolico, al fine di permettere ai fedeli di poter usufruire dei veicoli veramente cattolici per la ricezione della Grazia.
I fedeli cattolici, però, si raccolsero intorno alla Fraternità, certuni in maniera diretta, altri in maniera indiretta, perché essa rappresentò per loro, fin dall’inizio, il punto di riferimento per portare avanti quella battaglia contro il mondo che il concilio Vaticano II aveva deciso di abbandonare, supponendo erroneamente, e con l’aiuto dell’immancabile influenza del Maligno, che il mondo, essendo “progredito”, avesse raggiunto da sé una sorta di particolare santità… non ancora perfetta certo, così dicevano e dicono, ma tale da permettere alla immaginata nuova Chiesa di poter collaborare con esso per la reciproca crescita nella consapevolezza della verità.
Un ragionamento che, anche solo in termini lessicali, si regge solo sulla fantasmagoria moderna delle parole, ma che ciò nonostante informò il Concilio, il post-concilio, i papi, i cardinali, i vescovi e un gran numero di anime cattoliche che continuavano a fidarsi della conduzione dei loro “Pastori”.

La Fraternità, per i fedeli, fu e continua ad essere un baluardo per mantenere viva la vera fede cattolica e la sua pratica. D’altronde, lo stesso Mons. Lefebvre si rese conto che la sua opera finiva con l’assumere una connotazione più ampia della semplice congregazione religiosa. Oltre a supplire alla deficienza della nuova liturgia e alle manchevolezze e agli errori dei moderni pronunciamenti vaticani, essa corrispondeva al bisogno dei fedeli cattolici di rimanere ancorati alla Chiesa, al suo insegnamento bi-millenario e alla visione cattolica del mondo che valuta la modernità per quello che è: il substrato antropologico e culturale per l’avvento dell’Anticristo.

È per questo che nel 1988, Monsignore decise di operare lo strappo canonico, la posta in giuoco era più onnicomprensiva dell’istanza religiosa di una congregazione, era in giuoco la sopravvivenza di quel mondo che un tempo era la Cristianità e che adesso si era ridotto ad uno sparuto gruppo di chierici e di laici: gli ultimi rimasti a pensare, a ragionare e ad agire, nei limiti del possibile, in termini di imperio di Cristo, unico Re del Cielo e della terra.

Di fronte ad una necessità tanto  importante, e date le circostanze tanto impellenti, il problema della sottomissione all’autorità ecclesiastica poneva di fronte alla coscienza del vescovo cattolico il dilemma di dover seguire prioritariamente la legge canonica, venendo meno alle esigenze dell’onore che gli uomini devono rendere a Dio, oppure di aderire prioritariamente all’imperio di Cristo, trascurando il volere di un papa che aveva scelto la collaborazione col mondo anziché la battaglia cattolica per la sua conversione.
E questa scelta, Monsignore la fece in piena coscienza e valutando lucidamente le conseguenze canoniche, che non si fecero attendere, neppure quarantotto ore.

I fedeli, pur perplessi di fronte all’atto di disubbidienza all’autorità ecclesiastica, si resero conto che era incominciata un’altra fase della storia Chiesa: una fase nella quale l’obbedienza a Dio poteva tragicamente passare, purtroppo, per un “no” al Papa, un no fondato, giustificato, corroborato dall’ossequio alle leggi interne della sottomissione all’autorità di Dio, piuttosto che alle leggi esterne dell’ubbidienza all’autorità dei superiori ecclesiastici, tante volte confusi, molte più volte soggiacenti al mondo, troppe volte intenti ad elogiare l’uomo anziché ad adorare Dio.
Uno strappo, certo, ma uno strappo che equivaleva alla decisione del medico che, piuttosto di permettere la cancrena dell’intero corpo del malato, si risolve ad amputare il solo arto incancrenito. Il malato resterà offeso per tutta la vita, da quel momento la sua esistenza sarà segnata dall’amputazione, sarà un essere debilitato, ma la cancrena non l’avrà avuta vinta ed egli potrà continuare a provvedere alla cura per la salvezza della propria anima.

Se il tuo occhio ti è occasione di scandalo, cavalo e gettalo via da te; - dice il Signore – è meglio per te entrare nella vita con un occhio solo, che avere due occhi ed essere gettato nella Geenna del fuoco. (Mt. 18, 9)

L’occhio, dice il Signore. E parla dell’occhio della vista, dell’occhio della mente, dell’occhio del cuore, parla dell’occhio che non è più illuminato dalla luce della verità, ma si è lasciato annebbiare dai fumi del mondo che chiama all’inganno perfino gli eletti, se possibile (Cfr. Mt. 24, 24). Parla di ciò che contraddice la verità e che nella storia della Chiesa si è presentato fin dall’inizio proprio nell’esperienza di San Pietro, il primo Papa, da Nostro Signore eretto a “roccia”, perché ispirato da Dio, al versetto 18, e da Nostro Signore respinto, perché pensa secondo gli uomini, al versetto 23 dello stesso capitolo 16 di San Matteo.
E i fedeli cattolici si resero perfettamente conto che Mons. Lefebvre aveva sacrificato la sua sorte terrena personale di prelato, al bene della Chiesa per la salvezza delle anime.
Da quel momento la Fraternità sarà per loro il solo pezzo di Chiesa rimasto per la perpetuazione della fondazione di Nostro Signore e per l’incarnazione della Sua volontà.

Una responsabilità enorme, che da allora ha gravato sulle loro spalle e sulle spalle di centinaia di sacerdoti che hanno offerto la propria esistenza alla gloria di Nostro Signore Cristo Re.

Sono passati 40 anni, da allora, quarant’anni durante i quali la anomala posizione canonica di questo resto  della Chiesa, rappresentato dalla Fraternità San Pio X, con i suoi chierici e con i laici che godono provvidenzialmente del loro ministero, ha corrisposto alla testimonianza della concreta possibilità di continuare a rimanere cattolici nonostante la pesantezza di tale anomalia.
Nonostante le famose controverse scomuniche del 1988, la Fraternità ha continuato a rappresentare l’unico punto di riferimento nel mondo cattolico che, come un monito continuo, ha costantemente ricordato a tutti, al di là dei diversi convincimenti, che la Chiesa è una realtà che vive indipendentemente dalle vicissitudini del tempo e dai mutamenti del pensiero umano. Una realtà che ha un’intrinseca ragion d’essere che persiste nonostante il tempo e nonostante gli uomini. Una realtà che nella cesura col mondo conferma la sua natura soprannaturale, definita da Dio in funzione della salvezza eterna delle anime, e in opposizione ai progetti terreni degli uomini.

Il perdurare di tale opera di testimonianza, ha confermato che l’esistenza della Fraternità, e la sua ragion d’essere, non solo sono assistiti dallo Spirito Santo, senza la cui assistenza, dopo 40 anni -  40 anni che con i tempi moderni equivalgono a 400 anni di una volta -  essa si sarebbe sbriciolata, ma corrispondono ad uno stato di necessità che rientra nel piano della Divina Provvidenza. Stato di necessità che realizza una situazione del tutto nuova nella storia della Chiesa: il poter permanere cattolici nonostante le strutture della Chiesa e nonostante le stesse autorità ufficiali della Chiesa, ormai divenute inadempienti.

Quando Mons. Lefebvre si decise per la rottura con l’autorità, addusse proprio questo stato di necessità, che inevitabilmente non poteva essere riconosciuto dalle autorità ufficiali, proprio perché si fondava su una problematica che era legata a loro e non alla Fraternità.
I chierici e i laici, come forse lo stesso Mons. Lefebvre, concepirono tale stato di necessità come circoscritto in un certo tempo, destinato a risolversi, presto o tardi, con il ritorno alla normalità di quelle stesse autorità che l’avevano generato.

Uno stato di necessità che si prolunga oltremodo, finisce col tradursi in un’inaccettabile anomalia. Era questo, ed è questo il convincimento diffuso, sia tra i cattolici “ufficiali”, sia tra il resto dei cattolici raccolti nella e intorno alla Fraternità. Tale che dovrebbe arrivare il momento della fine di tale stato.
Ora, questo convincimento si basa, più o meno consciamente, sull’idea che la necessità sia scaturita da un accadimento eccezionale, in questo caso dall’orientamento assunto dalle autorità ufficiali in seguito al Vaticano II, e per il quale hanno ritenuto possibile una collaborazione fra la Chiesa e il mondo. Questo è vero, ma è insieme manchevole, poiché tale orientamento non corrisponde ad un’occasionale deviazione dall’insegnamento perenne della Chiesa, bensì ad una sorta di mutamento della forma mentis. Non si è trattato, e non si tratta, di un errore di valutazione, ma di un modo d’essere che trasforma quelli che un tempo erano cattolici in qualcosa di diverso, in ogni caso non più cattolico.

È questo un punto chiave che è necessario approfondire, poiché diversamente non si riuscirà a inquadrare correttamente il problema.

La situazione in cui s’è venuta a trovare la Chiesa a partire dal Vaticano II, non è solo il frutto di un processo involutivo vissuto o subito dagli uomini di Chiesa, ma si inquadra nell’inevitabile continuo allontanamento da Dio voluto e affermato dal mondo, per la sua stessa intrinseca natura.
Il mondo, creato da Dio, non è necessariamente “cosa buona” in forza di questa creazione, né l’uomo, creato a “Sua immagine”, è necessariamente “buono” per questa creazione: primo perché in tal modo è come se si sconoscesse il dato del peccato originale, secondo perché questa stessa creazione a “Sua immagine” implica la componente del libero arbitrio.
La possibilità che l’uomo, unico tra tutti gli esseri creati, possa scegliere liberamente in forza della capacità cognitiva donatagli da Dio, non è relativa alla possibile scelta tra un bene minore e un bene maggiore, bensì tra il bene e il male. L’uomo è libero, non per scegliere tra due beni, ma per scegliere tra il bene e il suo contrario, tra il restare legato a Dio e l’agire prescindendo da Dio, tra il risalire verso Dio e il discendere lontano da Lui. E questa possibile scelta non è relativa solo all’individuo o all’umanità, poiché l’uomo, posto ad accudire il creato, trascina nel suo movimento, in alto o in basso, tutto il creato. Se l’uomo si muovesse in ogni caso restando legato a Dio, non ci sarebbe stata l’Incarnazione, né ci sarebbe il giudizio finale. Sia l’intervento eccezionale di Dio, con l’incarnazione del Verbo, sia il giudizio finale, con la separazione tra i capri e le pecore, la fine del secolo e il rinnovamento con nuovi cieli e nuova terra, implicano che il movimento temporale dell’uomo e del mondo, del “secolo”, come dice il Vangelo, è un movimento discendente, un movimento di allontanamento da Dio, come peraltro viene più volte ricordato nei Vangeli (cfr. Mt. 24, 12; Lc. 18, 8). Movimento qualitativamente costante, fissato una volta per tutte, ma quantitativamente crescente e che si definisce per la degenerazione sempre più accentuata delle menti e dei cuori.
Se l’uomo, e con lui il creato, si mantenesse in rapporto con Dio e comunque in una tensione continua verso Dio, non ci sarebbe bisogno della fine del mondo e del suo “rifacimento”, perché tutto rientrerebbe in uno stato più o meno paradisiaco. Invece è proprio la perdita di questo stato che porta l’uomo ad allontanarsi sempre più dal Paradiso, salvo la possibilità offerta da Dio ad ogni singolo uomo, tramite l’Incarnazione e la Redenzione, di ricollegarsi a Lui per assicurarsi la vita eterna, nonostante il continuo richiamo verso il basso a cui deve resistere e a cui deve opporsi. Tale possibilità è offerta ai singoli uomini, non all’umanità nel suo complesso, con la conseguenza che la degenerazione innescata dalla perdita del Paradiso, in generale perdurerà fino alla fine dei tempi.

È in questa ottica che si colloca la creazione e il perdurare della Chiesa.
Essa è costituita dall’insieme dei singoli uomini che si ricollegano con Dio, e che per ciò stesso realizzano quella società perfetta che anticipa in terra il Suo Regno. Ma questa società non coincide col mondo, anzi mette meglio in luce, per chi ha occhi per vedere, il distacco da Dio in cui vive il mondo.
La Chiesa non ha il compito di salvare il mondo, ma le anime che intendono salvarsi per suo tramite, con i mezzi che Dio ha assegnato ad essa a questo scopo. Il mondo continua a scivolare verso il basso, e con esso il modo d’essere degli uomini, fino a quando non si potrà andare oltre e giungerà la fine. Il Paradiso e la vita eterna non sono per il mondo, ma per le singole anime.

Ciò nonostante, la Chiesa vive nel mondo e risente della sua degenerazione, se non altro perché, essendo composta da uomini, non può prescindere da loro e dallo stato manchevole sempre più accentuato in cui si trovano. Si dice che la Chiesa cammini con le gambe degli uomini, ma questi uomini, per il loro essere un’unità di corpo e di spirito, portano nella Chiesa la loro intera condizione, tale che se santi, portano la santità, se santificabili, portano la caducità. L’essere incorporati nel Corpo Mistico li preserva dalle conseguenze del peccato originale, ma non conferisce loro la santità, se non a condizione che la ricerchino e la meritino. L’imperfezione in questa ricerca e  la manchevolezza in questi meriti, non implicano l’automatica esclusione degli uomini dalla Chiesa, ma comportano la presenza e la diffusione nella Chiesa di tali imperfezioni e manchevolezze. Tale che inevitabilmente esse si manifestano, non solo tra i semplici fedeli, ma anche tra i chierici e i vescovi, i cardinali e i papi.
Insomma, la Chiesa, pur essendo santa e non “di” questo mondo, per  il suo dover essere “nel” mondo, risente anch’essa del suddetto movimento discendente, così che mentre il mondo si allontana sempre più da Dio, la Chiesa conosce una progressiva diminuzione della fede, come predetto da Nostro Signore.
A conferma di questo, se non bastasse l’esame oggettivo della storia della Chiesa, che rivela chiaramente la presenza di questa parabola discendente, si guardi a quanto accaduto col Vaticano II e con i frutti da esso prodotti in questi ultimi 50 anni. Non può trattarsi, e non si tratta, di un accadimento, come pensano certuni, ma si tratta di una tappa avanzata del processo di diminuzione che porta la Chiesa a restringersi sempre più, anche nella comprensione e nella pratica della fede.

La Divina Provvidenza, che conosceva fin dall’inizio ogni cosa, non permette che si possa giungere alla fine della Chiesa, esattamente come assicurato da Nostro Signore, e suscita nuove possibilità di testimonianza e di sussistenza del collegamento con Dio, per la salvezza delle anime che vogliono salvarsi. È così che nasce la Fraternità San Pio X, ed è per questo che Dio ha permesso che essa sussistesse fino ad oggi, perché, a prescindere dallo stato della compagine ecclesiale, essa potesse rappresentare quel resto che corrisponde alla possibilità di preservazione dei giusti, quelli stessi che permettono di ritardare, finché Dio vorrà, il redde rationem finale.

Ecco quindi delineato un altro importante elemento della “ragione d’essere della Fraternità”.
Come il Vaticano II non è stato e non è un episodio passeggero nella vita della Chiesa, così la Fraternità San Pio X non è stata e non è un rimedio passeggero al disastro provocato dal Vaticano II, da alcuni supposto passeggero. Come il Vaticano II ha segnato profondamente la vita della Chiesa, fissando concettualmente e in termini di nuovo cattivo insegnamento il decadimento di essa e delineando una neo-Chiesa sminuita nella dottrina e nella liturgia, una neo-Chiesa sempre meno cattolica e sempre più altro dal cattolicesimo, così la Fraternità San Pio X ha rappresentato e rappresenta la tenuta della Chiesa, la costanza della dottrina e della liturgia, il persistere della Chiesa cattolica di sempre, che non può essere né nuova, né rinnovata, né antica, né moderna.
Questo elemento, che dovrebbe essere presente nel sentire dei cattolici fedeli alla Tradizione, sembra invece misconosciuto da tanti di essi, poiché sono tanti quelli che si rifiutano di accettare l’idea che il famoso stato di necessità del 1988 sia, in realtà, la condizione oggettiva del nostro tempo, in cui tutti i precedenti parametri di riferimento di tipo ecclesiale sono saltati, di fronte ad un’intervenuta condizione generalizzata di necessità che richiede nuovi approcci e nuovi comportamenti, fondati indubbiamente sulla Tradizione, ma adattati in maniera idonea a far fronte ad un nuovo stato di cose, ad un nuovo tipo d’uomo, ad un nuovo tipo di uomini di Chiesa, ad una nuova autorità ufficiale, ad un nuovo rapporto tra la Chiesa e il mondo, ormai compromesso da quanto realizzato, in pensieri ed opere, dalla neo-Chiesa generata dal Vaticano II.
I cattolici fedeli alla Tradizione, laici e soprattutto chierici, che misconoscono questo o lo considerano come una semplice opinione escatologica e rimangono legati all’idea di una Chiesa che si risolleva dopo un brutto raffreddore o dopo un brutto colpo da maestro menato occasionalmente da Satana, si predispongono in maniera tale da non poter più fronteggiare la crisi e da non poter individuare i rimedi corretti per perseguire il bene della Chiesa e proseguire l’opera della salus animarum.

Fatta questa lunga premessa, possiamo passare adesso all’esame di quello che è accaduto in questi anni nella Chiesa, ivi compresa la Fraternità San Pio X.

I frutti della svolta voluta del Vaticano II, pur nella loro complessità, sono talmente manifesti e noti che oggi abbiamo un papa che a suo modo cerca di mettere delle pezze, ma se non si mette a fuoco l’elemento simbolico, e quindi pregno di significati e di conseguenze pratiche, che attuò nel 1964 Paolo VI, si finisce col valutare certi elementi importanti come fossero degli accadimenti poco significativi.
La deposizione della tiara effettuata in maniera plateale da Paolo VI, sempre combattuto tra dichiarazioni cattoliche, decisioni pseudo cattoliche e comportamenti anticattolici, è il segno palese e cosciente della fine di un’epoca; l’epoca nella quale, sia pure in maniera confusa, l’idea della Chiesa come mater et magistra, reggitrice del mondo e Corpo Mistico di Cristo, veniva abbandonata per essere sostituita con l’idea nuova di una Chiesa democratica – collegiale in termini ecclesiali moderni -  non mater, ma ancilla; non magistra, ma discipula, non reggitrice, ma coadiutrice, non Corpo Mistico, ma compagine umana.
La deposizione della tiara, spiegata dai nuovi preti della nuova Chiesa con mille disquisizioni più o meno dotte, fu il segno efficace dell’accantonamento della primazia di Cristo sul mondo, come se Nostro Signore fosse venuto solo per fare un bel discorso e non per ricordare a tutti che senza di Lui non si può fare nulla che sia vero e che sia di Dio.

I papi che seguirono Paolo VI hanno avallato e accentuato questo accantonamento, da papa Luciani, che ha trasformato il simbolo del Regno in reperto da museo, a papa Woityla che ha trasformato la buona novella in un prodotto pubblicitario, a papa Ratzinger che sta trasformando il Corpo Mistico in una sorta di contenitore che accoglie ogni e qualsiasi prodotto della elaborazione umana e della pratica anticristica del mondo.
I relativi raddrizzamenti che si sono prodotti in questi anni, rientrano nel processo fisiologico di assestamento della diffusione del male: si mettono a punto certe correzioni secondarie per confermare l’andamento intrapreso e per consolidare la malattia.
Ovviamente, com’è umano, tanti cattolici in buona fede colgono in questi elementi accidentalmente correttivi come dei segni di ripresa, non tanto per il valore reale che essi hanno, quanto per la coltivazione dell’illusione che dopo il forte raffreddore debba necessariamente venire la guarigione. In realtà, qualsiasi riflessione sull’andazzo delle cose di Chiesa in questi ultimi cinquant’anni, dalla liturgia alla dottrina, dalla pastorale alla pratica della fede, rivela che il processo di decadimento e di allontanamento dalla verità si è accentuato con moto accelerato.
Potremmo fare centinaia di esempi, ma non è questa la sede per un lungo elenco che richiederebbe una altrettanto lunga disamina, ci limiteremo ad accennare solo a qualche esempio: la dichiarazione di cattolicità di gruppi che paradossalmente si assicura manterranno la loro a-cattolicità, come ieri gli anglicani e oggi, a breve, i luterani, o come i carismatici o i neocatecumenali. Ai quali, in nome di una declamata unità parolaia, si affiancano gruppi che dichiarano di voler mantenere la Tradizione, mentre, così facendo, accettano a priori l’equiparazione con quelli che considerano la Tradizione come una palla al piede e praticano una sorta di cristianesimo fai da te che riscuote i plausi del mondo, i suoi incoraggiamenti e il suo sostegno.
Al nemico che si arrende, ponti d’oro.

Gruppi di diversa consistenza e origine, che da alcuni anni prolificano ovunque, e non a caso, perfino all’interno della stessa Fraternità San Pio X, dimentichi come sono del fatto elementare che quel poco di maggiore attenzione che si nota in giro verso la Tradizione è dovuta all’esistenza della stessa FSSPX e, soprattutto, al persistere della anomala posizione canonica da essa mantenuta fino ad oggi, nonostante tutto.
Un altro elemento, questo, che rivela come i germi della dissoluzione si annidano ovunque, anche dove meno ci si aspetta.

La parabola discendente è così confermata, com’è confermata l’accelerazione del processo, com’è anche confermata l’ancora di salvezza che il Signore predispone per le anime ingenue, perché non si accorgano dell’incremento del disastro, lo scambino per stabilità, e, non scivolando così nella disperazione, non abbandonino la poca fede loro rimasta.
Una volta si diceva che Dio fa impazzire chi vuol perdere, oggi si potrebbe dire che Dio acceca chi non vuole ancora perdere.

In questo scenario che può sembrare apocalittico, ma che è del tutto coerente con quanto abbiamo approssimativamente delineato prima, e che è del tutto rispondente alla realtà, certi cattolici fedeli alla Tradizione, ancora in condizioni canoniche problematiche rispetto alle autorità ufficiali della Chiesa, soffrono una sorta di sdoppiamento della personalità.
Alcuni pensano che il perdurare di tale condizione sia divenuta una cosa non più sostenibile, soprattutto se vista in relazione a loro stessi in quanto persone,  che non se la sentono di passare a miglior vita senza aver superato le conseguenze dello stato di necessità. Questo è molto umano, e quindi comprensibile, ma certo non ha niente a che vedere con quello che abbiamo delineato come “la ragione d’essere della Fraternità”.
I gruppi che si sono separati dalla Fraternità e hanno ritrovato una forma canonica ufficiale a sostegno della loro sopravvivenza, sono stati mossi innanzi tutto dal bisogno tutto umano di mettersi il cuore in pace: impensabile morire in condizioni canonicamente problematiche, come scelse di fare coscientemente e dolorosamente Mons. Lefebvre per il bene della Chiesa e delle anime.
Al tempo stesso, il rifiuto, conscio o inconscio, dell’analisi oggettiva del decadimento, ha impedito loro di cogliere i segni dell’aggravamento della malattia, anzi li ha indotti a sopravvalutare l’abbassarsi della febbre al mattino, come se si trattasse di un sintomo di guarigione, trascurando di considerare che l’aumento della stessa febbre al pomeriggio rivela chiaramente che il male è ancora lì e non accenna a scemare, anzi rischia di far collassare il malato.

Facciamo qualche piccolo esempio. Quando papa Ratzinger decide di distribuire la comunione in ginocchio, è inevitabile cogliere un segno della volontà di tornare a gesti e posture cattoliche, ma non è giustificato dedurne che questa volontà di ritorno possa o addirittura debba corrispondere alla ripresa della Tradizione, sia pure in parte.
Solo chi non ha capito che la parabola discendente non esclude la compresenza di alti e bassi relativi, può scambiare le fisiologiche incrinature in alto per inversione di rotta, e solo chi è portato a leggere la realtà con le lenti della propria aspettativa e della propria speranza meramente umane, può non accorgersi che si può dare la comunione in ginocchio pur continuando ad insegnare che Nostro Signore lo si può servire anche senza essere cattolici. Può non accorgersi che il recupero della Messa tradizionale, per esempio, non corrisponde al recupero della Tradizione, ma all’uso volutamente strumentale di elementi tradizionali per avallare il perdurante impianto antitradizionale, e questo non in mala fede, tutt’altro, in perfetta buona fede, perché chi agisce così è convinto che non vi sia contraddizione tra il Cristo Crocifisso e il mondo che lo rifiuta, è convinto che, essendo la religione cattolica un complesso di esperienze e non un insieme di dottrina e di pratica religiosa, nulla osta che queste esperienze possano essere vissute soggettivamente da chiunque, al di là del fatto che si dichiari o si creda o veramente sia cattolico o perfino non cattolico.
Solo chi non intende capire tutto questo può scambiare per inversione di rotta la cosiddetta “riforma nella continuità”.

In questa strana condizione mentale e intellettuale, in cui i chiaroscuri vengono scambiati per colori e le linee ondulate vengono scambiate per linee rette, non stupisce che certi cattolici fedeli alla Tradizione si ingannino sulla reale possibilità di ripresa della Chiesa, e non meraviglia che certuni pensino che per debellare la malattia si possa anche entrare in circolo con essa, nello stesso corpo malato, riuscendo a non rimanerne infettati ed anzi potendo agire quasi come un anticorpo.
E siamo ancora all’immagine del raffreddore, come se la crisi della Chiesa non si inscrivesse nella generale degenerazione del mondo, tale che ci si illude che si possa estirpare un cancro trasformandolo in una cellula sana.

E in questa generalizzata e distorta visione si producono analisi e si delineano prospettive diverse. Da chi pensa che si possa invertire la parabola discendente attraverso le semplici dichiarazioni critiche, a chi ritiene che, miracolosamente, basta chiamare cancro il cancro perché questo si trasformi in cellula sana.

Il Signore non abbandona la sua Chiesa, si dice, dimenticando però che questa Chiesa è quella formata da coloro che credono in Lui, indipendentemente dall’autorità ufficiale o dalla struttura formale. E dimenticando soprattutto la particolare connotazione che caratterizza l’attuale crisi della Chiesa, in forza della quale si è convinti, per esempio, che basti pregare mentre si ammira una degenerazione perché questa diventi incredibilmente una cosa buona. Come affermato ultimamente da Papa Ratzinger a proposito della Cappella Sistina: se si “contempla in preghiera” un’opera che esalta il genio umano, ecco che questa diventerebbe un’opera a gloria di Dio.

È la parabola delle degenerazioni dottrinali e liturgiche del Vaticano II: si vuol far credere che basterà approfondirle e comprenderle con animo benevolo, perché esse smetteranno di essere degenerazioni e diverranno utili strumenti per la predicazione del Vangelo.

A questo punto, tenendo presente quanto abbiamo detto fin qui, possiamo esaminare l’evoluzione che si è prodotta in seno alla Fraternità San Pio X.
Visti gli accadimenti di questi ultimi mesi, non è gratuito porsi la domanda: si va verso il mutamento della ragion d’essere della Fraternità?
La risposta a questa domanda sarà l’oggetto della seconda parte di queste riflessioni.



(seconda parte)


di Belvecchio


Si va verso il mutamento della ragion d’essere della Fraternità?

 

Questa domanda, che potrebbe apparire di secondaria importanza, pone invece una questione capitale, perché quando muta la ragion d’essere di una cosa è perché è mutata la cosa stessa.

Per affrontare adeguatamente questo importante aspetto della situazione attuale, occorre fare una breve premessa, relativa al cosiddetto sedevacantismo; tenendo presente che questo moderno orientamento e il termine che lo indica, vengono continuamente agitati come un marchio infamante, sia dai cattolici progressisti, sia da certi cattolici tradizionali.

Quando Mons. Lefebvre venne abbandonato da alcuni chierici che gli rimproveravano l’incoerenza nel voler mantenere la sottomissione al Papa insieme alla disubbidienza allo stesso Papa, Monsignore precisava che non si può far finta di ignorare la realtà oggettiva: un papa legittimamente al suo posto e lo stesso papa fautore di errori che si spingono fino all’eresia. Entrambe le cose sono oggettivamente esistenti e, seppure in apparente contraddizione, sono fondate sul dato oggettivo della anomalia attuale della vita della Chiesa, che rientra nella logica della progressiva riduzione al minimo della Chiesa stessa, in un mondo che si allontana sempre più da Dio e che per ciò stesso è destinato a finire.

I sedevacantisti traggono una conclusione immediata e semplice da questa constatazione. Se il Papa è legittimamente al suo posto, ogni cattolico gli deve ubbidienza, ma se questo stesso Papa è fautore di errori, nessun cattolico può ubbidire agli errori, ragion per cui o il cattolico ubbidisce al Papa e smette di essere cattolico o è il Papa a non essere più cattolico. E siccome il cattolico sa di essere cattolico, ne deriva inevitabilmente che è il Papa a non essere cattolico, tale che se il Papa non è cattolico, non può essere neanche il Papa.

Ragionamento semplice ed anche pratico, che però non risponde ai problemi che sorgono dall’oggettiva esigenza che debba esserci, e che infatti c’è, un papa, e al tempo stesso debba esserci il cattolico che rifiuta l’errore promosso da questo papa.
Il problema viene aggirato e trasposto nel tempo, affidando la soluzione all’intervento della divina Provvidenza: si ipotizza che verrà un giorno in cui un papa regolarmente eletto si deciderà a dichiarare decaduti i papi che hanno errato e a riaffermare lo status quo ante, ripristinando il papato e la vera fede. E questo vale sia per i sedevacantisti che potremmo chiamare “duri”, sia per quelli che, come i componenti dell’Istituto Mater Boni Consilii, sostengono la nota tesi di Cassiciacum.

È evidente che questo ragionamento si basa sulla da noi richiamata metafora del raffreddore, e sul timore di dover riconoscere che la crisi attuale non sia addebitabile a questo o a quel papa, ma è il frutto inevitabile del procedere in basso della compagine ecclesiale. Cosa che non dev’essere intesa come una caduta precipitosa, ma, come dimostra la storia della Chiesa, va vista come un procedere costante che può anche comportare, per la volontà di Dio, delle parentesi di relativo recupero.

Esso si basa anche sull’idea che il non prevalebunt non possa avere un valore eminentemente escatologico, ma debba avere un valore attuale, come se duemila anni di storia della Chiesa non potessero insegnare niente e come se l’avvertimento di Nostro Signore circa la quasi scomparsa della fede nel mondo al momento della Parusia, dovesse riguardare chissà quale pezzo di mondo e non l’unico mondo seriamente esistente e cioè la Chiesa di Cristo. D’altronde, laddove è profetizzato che l’abominio della desolazione starà nel luogo santo (Cfr. Mt. 24, 15-25), non si dice che a quel punto non ci sarà più il luogo santo, perché sarebbe come dire che il mondo stesso non ci sarà più. In realtà, finché Dio vorrà, ci sarà sia il luogo santo sia l’abominio, tale che possano essere manifesti a tutti e la natura del primo e la natura del secondo, così che le anime possano orientarsi per fuggire l’abominio anche se si è insinuato nel luogo santo.

In pratica, il sedevacantismo ritiene che l’esistenza della crisi attuale sia dovuta esclusivamente all’errore degli uomini di Chiesa e che si risolverà ad opera di altri uomini di Chiesa, i quali ristabiliranno lo status quo ante.
È lo stesso ragionamento che fanno certi cattolici difensori della Tradizione che, pur dichiarandosi anti-sedevacantisti, disconoscono parimenti il deterioramento progressivo della compagine ecclesiale e parimenti pensano che il superamento della crisi si compirà ad opera di uomini di Chiesa, che in questo caso sarebbero loro stessi.

Due illusioni simmetriche fondate sul rifiuto del riconoscimento della realtà oggettiva. Ma, mentre i primi, nell’attesa, rimangono nel loro fortino, i secondi pensano di abbandonare la ridotta nella quale Dio li ha posti provvidenzialmente, e sognano di entrare nel corpo malato per fare il lavoro dei globuli bianchi. Immaginando di poter continuare a svolgere la loro opera di testimonianza, non più da una posizione esemplare e visibile, ma frammisti a mille altre esperienze intra-ecclesiali moderne, tutte refrattarie al loro provvidenziale messaggio e tutte preoccupate di “accogliere” nel contenitore multiforme in cui si trovano ogni cosa e anche il suo contrario.

Per comprendere se si sia giunti o meno a quella che abbiamo chiamato la mutazione della ragion d’essere della Fraternità, possiamo riferirci allo scambio di lettere che c’è stato, nell’aprile scorso, tra tre vescovi della Fraternità e il Consiglio generale della stessa.

C’era in ballo il possibile accordo con l’autorità ufficiale, e i tre vescovi facevano notare che:
«a partire dal Vaticano II le autorità ufficiali della Chiesa si sono staccati dalla verità cattolica, ed oggi esse dimostrano, del tutto determinate come sempre, di voler rimanere fedeli alla dottrina e alla pratica conciliari».

E ricordavano, citando Mons. Lefebvre:
«che non si tratta di errori superficiali, né di alcuni errori particolari come l’ecumenismo, la libertà religiosa, la collegialità, quanto piuttosto di una totale perversione dello spirito, di tutta una filosofia nuova fondata sul soggettivismo… È molto grave! Una perversione totale!».

«Ora, da questo punto di vista, il pensiero di Benedetto XVI è migliore di quello di Giovanni Paolo II? Basta leggere lo studio di uno di noi tre su La fede in pericolo per la ragione, per rendersi conto che il pensiero del Papa attuale è ugualmente impregnato di soggettivismo. Tutta la fantasia soggettiva dell’uomo al posto della realtà oggettiva di Dio. Tutta la religione cattolica sottomessa al mondo moderno».

E concludevano avvertendo:
«voi conducete la Fraternità ad un punto dal quale non potrà più cambiare strada, ad una profonda divisione senza ritorno e, se concluderete un tale accordo, sotto delle potenti influenze distruttive che essa non sopporterà».

Come si può vedere, in queste osservazioni sono presenti una constatazione e una preoccupazione. La constatazione che il processo che ha determinato la crisi attuale è conseguente e progressivo, e la preoccupazione che il cambio della posizione attuale della Fraternità possa condurre in un vicolo cieco che distruggerà la Fraternità stessa.

Ovviamente, va precisato che, nonostante quanto diciamo qui, non possa e non debba escludersi l’intervento di Dio che, a suo modo, potrebbe far tornare la Chiesa con la schiena diritta. Ma questo non implica che la Fraternità debba abbandonare la sua posizione canonica irregolare, anzi, non è detto che non sia proprio in forza di tale posizione che l’azione di Dio potrebbe attuarsi attraverso la testimonianza di questo resto rappresentato dalla Fraternità, che è stato esemplare in questi ultimi 40 anni e  continuerebbe ad esserlo, provvidenzialmente, anche in vista di questa possibilità.
Aiutati che Dio t’aiuta.

A queste osservazioni, il Consiglio generale ha risposto in maniera tale che varrebbe la pena riportare tutta la lettera, ma, visto che essa è facilmente consultabile, ci limiteremo a riportare i punti salienti perché bastano a comprendere come si sia prodotto un cambio di prospettiva.
Faremo le deduzioni necessarie e inevitabili, soffermandoci sui vari passi, uno alla volta.

«la descrizione [dello stato della Chiesa] è macchiata da due difetti relativi alla realtà della Chiesa; manca del soprannaturale e nel contempo di realismo».
«Essa manca del soprannaturale. Nel leggervi, ci si chiede seriamente se voi credete ancora che questa Chiesa visibile la cui sede è a Roma sia proprio la Chiesa di Nostro Signore Gesù Cristo, una Chiesa certo orribilmente sfigurata a planta pedis usque ad verticem capitis, ma una Chiesa che quanto meno e ancora ha per capo Nostro Signore Gesù Cristo. Si ha l’impressione che voi siate talmente scandalizzati da non accettare più che questo possa essere ancora vero. Per voi Benedetto XVI è ancora il papa legittimo? Se lo è, Gesù Cristo può ancora parlare con la sua bocca?»

Come si vede, questo richiamo alla soprannaturalità della Chiesa rivela una mentalità che in qualche modo ha già abbandonato la ragion d’essere della Fraternità.
Chi potrebbe negare che la Chiesa con sede a Roma sia la Chiesa di Cristo? E chi potrebbe negare che il suo capo è Nostro Signore e che Benedetto XVI è ancora il papa legittimo e che Gesù Cristo possa parlare con la sua bocca?
Tutto questo è innegabile, ma al tempo stesso è contraddittorio ricordarlo, poiché la Fraternità è nata, è cresciuta, ha disubbidito al Papa e si è posta in una condizione canonica irregolare, nonostante tutto questo, perché già 40 anni fa le domande erano le stesse. Eppure esse non impedirono che fossero consacrati i quattro vescovi, quegli stessi vescovi che oggi si confrontano su due posizioni diverse.
La risposta del Consiglio generale, mentre insinua per i tre vescovi firmatari il sospetto di sedevacantismo, crimine inaudito, commette l’errore, a rigore della sua propria logica, di insinuare che anche Mons. Lefebvre e i quattro vescovi consacrati nel 1988, fossero sedevacantisti, perché agendo come hanno fatto, hanno negato che allora la Chiesa con sede a Roma fosse la Chiesa di Cristo, che il capo di quella Chiesa fosse Nostro Signore e che Paolo VI e Giovanni Paolo II fossero papi legittimi e Cristo potesse parlare con la loro bocca.
Ora, dovendo considerare che la risposta è stata firmata anche da uno dei quattro vescovi, è palese che questi ha mutato il suo convincimento, passando da sedevacantista, come insinua lui stesso, a sostenitore del Papa attuale, al quale riconosce la legittimità e la possibilità che egli parli in nome di Cristo.

Ci si chiede: cos’è cambiato? I tre vescovi dicono: niente!
Il Consiglio generale dice:
«Se il papa esprime una volontà legittima nei nostri confronti, che è buona, che non comporta un ordine contrario ai comandamenti di Dio, si ha il diritto di trascurare, di respingere con un gesto della mano questa volontà? E se no, su quale principio vi basate per agire così? Non credete che se Nostro Signore ci comanda, Egli ci darà anche i mezzi per continuare la nostra opera? Ora, il papa ci ha fatto sapere che la preoccupazione di regolare la nostra questione per il bene della Chiesa era al cuore stesso del suo pontificato, e anche che sapeva bene che sarebbe stato più facile per lui e per noi lasciare la situazione nello stato delle cose. Dunque è una volontà ferma e giusta che egli esprime».

Ma questa risposta non dice che sia cambiato qualcosa di importante, per esempio che la moderna gerarchia non soggiaccia più al mondo, si limita a dare per scontata una cosa tutta da dimostrare: e cioè che il Papa esprima una volontà “che è buona”, “una volontà ferma e giusta”.
E quale sarebbe questa volontà?
Quella, dice la lettera, “di regolare la nostra questione per il bene della Chiesa”.
È più che evidente che questa intenzione, che “era al cuore stesso del suo pontificato”, non indica affatto una volontà buona, ferma e giusta, ma semplicemente una volontà. Una volontà ben comprensibile per questo Papa, che vorrebbe che fuori della Chiesa non ci fosse più niente, né cristiani “separati”, cioè scismatici ed eretici, né cattolici critici, e questo indipendentemente dalle motivazioni, le quali di fronte alla moderna rilettura dell’“ut unum sint” perderebbero ogni importanza.

Ma quando la lettera precisa che questa manifestazione di volontà del Papa attuale, non comporterebbe un ordine contrario ai comandamenti di Dio, rivela tutta la sua superficialità, poiché, non solo non chiarisce il punto, ma dà per scontato che l’applicazione della concezione moderna dell’“ut unum sint” costituisca un imperativo inoppugnabile, non contrario ai comandamenti di Dio, che i firmatarii della lettera condividono e considerano come espressione di una volontà buona, ferma e giusta.
La mutazione è più che palese ed è talmente articolata che si risolve nel convincimento che il bene della Chiesa richieda inderogabilmente la regolarizzazione della posizione canonica della Fraternità. Tale che si comprende che chi esprime questo convincimento sia giunto ultimamente alla conclusione che quarant’anni di irregolarità canonica, comprensiva della consacrazione di quattro vescovi, corrispondano inevitabilmente al male della Chiesa.

Una contraddizione, dicevamo prima, con l’aggiunta che a pochi mesi di distanza, quella che era stata vantata come una volontà buona, ferma e giusta, viene oggi denunciata come una volontà inaccettabile, perché pare che oggi sia stato “scoperto” – inaspettatamente? – che il Papa voglia che la Fraternità accetti il Vaticano II, le riforme da esso partorite e il magistero dei papi e dei vescovi successivi; che accetti cioè “un ordine contrario ai comandamenti di Dio”.

Ma su questo ci soffermeremo alla fine di queste nostre riflessioni.

Per adesso esaminiamo questa domanda notevole: Non credete che se Nostro Signore ci comanda, Egli ci darà anche i mezzi per continuare la nostra opera?

Qui si scorge la presenza di una deduzione gratuita e contraddittoria.
Non risulta, fino a prova contraria, che Nostro Signore abbia espressamente comandato al Consiglio generale di regolarizzare al più presto la posizione canonica della Fraternità, quindi questa affermazione è basata sulla deduzione che l’invito pressante del Papa corrisponda ad un comando di Nostro Signore, poiché, si è ricordato prima, Gesù Cristo può ancora parlare con la sua bocca. Ma questa deduzione è gratuita, perché, secondo questa logica, anche i 4 papi che hanno preceduto l’attuale avrebbero proferito le parole di Gesù Cristo, tale che la Fraternità sarebbe in errore da 40 anni.
La deduzione, poi, è conseguentemente contraddittoria perché non è possibile che Nostro Signore comandi qualcosa di contrario alla Tradizione.

Per di più, come non accorgersi che questa domanda possa capovolgersi?
Infatti nulla esclude che il comando di Nostro Signore consista nella permanenza della irregolarità canonica, sulla cui base il Signore continuerà a donare i “mezzi per continuare la nostra opera”. Deduzione, questa, che non è gratuita, ma del tutto giustificata dal fatto che è proprio l’inaccettabile profferta di questo Papa che autorizza a pensare che il comando di Nostro Signore consista esattamente nel permanere della irregolarità. Tale che il seguire una strada diversa si risolverebbe nel venir meno dei “mezzi per continuare la nostra opera”.

La lettera offre quindi un altro elemento.
«Voi ci rimproverate di essere ingenui o di avere paura, ma è la vostra visione della Chiesa ad essere troppo umana e perfino fatalista; voi vedete i pericoli, i complotti, le difficoltà, ma non vedete l’assistenza della grazia e dello Spirito Santo. Se si accetta che la divina Provvidenza conduce le questioni degli uomini, pur lasciando la loro libertà, allora bisogna accettare anche che i gesti di questi ultimi anni in nostro favore sono sotto la sua direzione. Ora, essi indicano una linea – non tutta diritta – ma chiaramente a favore della Tradizione».

Ora, quello che stupisce è la leggerezza con la quale si ricorda l’assistenza della grazia e dello Spirito Santo, individuandola immediatamente nei “gesti di questi ultimi anni in nostro favore”. Leggerezza che è rivelata dall’affermazione implicita che le sole volte che la divina Provvidenza abbia diretto i gesti del Papa, sono quelle relative ai gesti in favore della Fraternità. In tutte le altre volte, il Papa da chi è stato diretto?
Sembra incredibile, ma qui è come se si dicesse che il Papa gode dell’assistenza della grazia e dello Spirito Santo solo quando fa cose che sono un bene per la Fraternità.
Come non rilevare la corposa vena sedevacantista che alimenta questa osservazione?

Ma il punto cruciale non è questo, bensì il dare per scontato che in questi ultimi anni vi siano stati dei gesti in favore della Fraternità e che questi gesti “indicano una linea – non tutta diritta – ma chiaramente a favore della Tradizione”.
Qui la leggerezza è talmente macroscopica che rivela una strumentalità che svilisce la portata del documento e l’autorevolezza dei suoi estensori.

Quali sono stati questi gesti, così decisivi e così palesemente in linea con la Tradizione?
Dal 2005 ad oggi ci sono stati solo pochi fatti che sono suscettibili di essere superficialmente scambiati per gesti “chiaramente a favore della Tradizione”.

Il primo, del 2007, è la liberalizzazione, sotto cauzione, dell’uso dei libri liturgici tradizionali.
Questo atto, che indubbiamente corrisponde ad una precisa richiesta della Fraternità, mentre ha suscitato un certo giustificato ottimismo, ha rivelato, alla luce della sua applicazione e dell’esame ponderato dei testi che lo riguardano, di corrispondere alla precisa volontà di svilimento e corruzione della Tradizione.
Svilimento, perché la Tradizione è stata subordinata al concilio Vaticano II e ai suoi frutti, come se essi fossero la fonte della Tradizione e, come è stato ribadito, gli unici giudici della Tradizione.
Corruzione, perché il vero scopo del Motu Proprio Summorum Pontificum non è quello di riportare nella Chiesa l’uso della sua bi-millenaria liturgia apostolica, bensì quello di permettere una nuova elaborazione di una nuova liturgia, sulla base di quella abortita dal Vaticano II, con l’aggiunta di tutti quegli elementi in grado di farla assomigliare alla liturgia tradizionale, senza che di essa vi sia più alcun serio contenuto. Quello che si sta preparando, e che costituirà la nuova legge liturgica della Chiesa conciliare, è il superamento della Tradizione attraverso l’aggiustamento della moderna liturgia antitradizionale.

Il secondo, del 2009, è la remissione delle scomuniche.
Questo atto, corrispondente anch’esso ad una precisa richiesta della Fraternità, mentre ha eliminato di fatto una censura canonica notoriamente ingiustificata, di diritto si è preoccupato, non di dichiarare nullo e illegittimo il provvedimento del 1988, ma di ribadirlo, sulla base della supposta “nuova” dichiarazione di riconoscimento dell’autorità del Papa, riconoscimento che, com’è noto, non è mai mancato in questi vent’anni di “scomunica”, anzi è stato più volte ribadito, senza che le scomuniche siano mai venute meno. 
Chiunque conosca il diritto canonico, sa che tale volontà di conferma della sanzione del 1988, prima ancora che dalla lettura “canonica” del decreto di remissione, la si evince con immediatezza dal fatto che non sono stati riabilitati Mons. Marcel Lefebvre e Mons. Antonio de Castro Mayer, che fino alla fine hanno sempre confessato il riconoscimento dell’autorità del Papa.
Una remissione fittizia, dunque, che per come è stata formulata e per quello che vale canonicamente, non recita affatto a favore della Tradizione, anzi.

Siamo i primi a riconoscere che lo stato attuale della Chiesa cattolica è tale che certe cose, seppure importanti, possono essere fatte solo tenendo realisticamente presente tale stato, e che quindi bisogna dare tempo al tempo, come si suol dire, ma se gli atti importanti del magistero continuano ad essere fortemente condizionati dallo stato disastroso che la Chiesa vive da cinquant’anni, non si può poi sostenere che tali atti sono in linea con la Tradizione e che addirittura la favoriscono.

Peraltro, se si tiene presente che il Papa ha espressamente dichiarato che la remissione delle scomuniche non risolve l’illecita posizione canonica dei vescovi e dei sacerdoti da essi ordinati e diretti, e che tutti costoro svolgono illecitamente il loro ministero, e che tutti costoro amministrano illecitamente i sacramenti, e che per sanare questa situazione è necessario che tutti costoro riconoscano che il concilio Vaticano II e suoi frutti, cioè la nuova liturgia, l’ecumenismo, la libertà religiosa, la collegialità, l’inclusivismo e le scomuniche del 1988, sono atti del magistero del tutto tradizionali… se si tiene presente questo, dov’è che si riscontra la “linea chiaramente a favore della Tradizione”?

Vero è che in questo documento del Consiglio generale si dice, della linea, che è: “non tutta diritta”, ma si precisa espressamente “chiaramente”, dimostrando che la visione delle cose che accadono ancora in seno alla Chiesa, e che sono sotto gli occhi di tutti, è una visione viziata da una miopia incomprensibile, che, non solo contraddice l’intero argomentare, ma rivela un angolo di visuale che tiene conto solo dell’ottica della Fraternità: visto che la Fraternità ne ha tratto un qualche beneficio, almeno verbale, allora come non riconoscere che si tratti di gesti “chiaramente a favore della Tradizione”?
Non era questa la giustificazione che ha fondato la nascita della Fraternità, le consacrazioni episcopali, la disubbidienza canonica e la morte da pseudo scomunicato di Mons. Marcel Lefebvre. La giustificazione era tutt’altra e costituiva la reale ragion d’essere della Fraternità: sopravvivere per il bene della Chiesa, per il bene delle anime e per testimoniare davanti a Dio e davanti agli uomini che si può continuare a rimanere cattolici nonostante la cattiva volontà delle autorità ufficiali e nonostante si debbano subire le loro ingiuste censure canoniche.
Un evidente mutamento di rotta e di prospettive.

Ma veniamo al terzo gesto, anch’esso del 2009,  i colloqui dottrinali.
Di essi si è detto di tutto, e qualche volta anche il contrario, così che è davvero difficile districarsi nel ginepraio che ne è derivato. Per poter parlare con cognizione di causa di questi colloqui, è necessario che qualcuno renda pubblico, come promesso e com’è logico e com’è di diritto per tutti i cattolici, organici, aderenti, vicini ed anche lontani alla Fraternità,… renda pubblico il contenuto dei verbali e delle registrazioni che sono stati voluti e realizzati proprio a questo scopo.
Inspiegabilmente però, a colloqui ultimati, chiusi e dichiaratamente conclusi, il loro contenuto è ancora avvolto nel più fitto mistero.
Siamo i primi a ricordare che stultum est proicere margaritas ante porcos, ma ci si conceda, almeno a noi, di rimanere ancorati al buon senso e di chiederci: forse che il contenuto dei colloqui è fatto di margaritas? Forse che i fedeli cattolici tradizionali e interessati a diventarlo, sono dei porcos?

Questo ci obbliga a parlare di questi colloqui per quello che è stato detto e per quello che hanno rappresentato.
  • È stato detto che essi servivano a fare chiarezza, a mettere in chiaro quali fossero i convincimenti della Fraternità e quali i convincimenti della Curia romana. E pare che questo scopo sia stato raggiunto. Si tratta di due convincimenti inconciliabili.
  • È stato detto che essi servivano a verificare se potessero esserci delle possibili convergenze tra i due convincimenti, tanto da giungere ad un intento comune. E pare che anche questo scopo sia stato raggiunto: non possono esserci convergenze, né si può addivenire ad un comune intento. Si è trattato di un discorso tra sordi.
  • È stato detto che essi servivano per verificare se fosse stato possibile giungere ad un accordo dottrinale. E pare che anche questo scopo sia stato raggiunto: non è possibile alcun accordo dottrinale.
  • È stato detto che essi servivano a far sì che le autorità romane ritrattassero i loro errori e ritornassero alla vera fede. Qualcuno ha parlato perfino di conversione. Ma pare che questo scopo non sia stato raggiunto: le autorità romane continuano a sostenere e a praticare gli stessi errori e pretendono addirittura che la Fraternità approvi e condivida.
  • È stato detto che essi servivano per sfatare il tabù del super-concilio, non tanto presso le autorità romane, quanto presso i fedeli cattolici. E pare che questo scopo sia stato parzialmente raggiunto: perché per un verso si può parlare liberamente degli errori del Vaticano II, per un altro verso non si può dire che questi errori sono tali da pregiudicare la tenuta della fede.
  • È stato detto che essi servivano a preparare la riconciliazione tra la Fraternità e Roma, con la stipula di un accordo che portasse al riconoscimento canonico della Fraternità. E pare che questo scopo non sia stato raggiunto, sia perché non è stato possibile alcun accordo preventivo, sia perché Roma non ha tenuto conto del contenuto dei colloqui e ha chiesto alla Fraternità di sottoscrivere un “preambolo dottrinale” che considera i colloqui come mai avvenuti.
  • È stato detto, all’inizio, che essi servivano ad “approfondire…con le Autorità della Santa Sede le questioni ancora aperte, così da poter giungere presto a una piena e soddisfacente soluzione del problema posto in origine” (Decreto di remissione della scomunica, 21 gennaio 2009). E pare che questo scopo non sia stato raggiunto, tanto che non solo non si è arrivati alla “soluzione del problema posto in origine”, ma non è stato neanche chiarito quale fosse questo problema.

Peraltro, questi colloqui hanno rappresentato la controprova che non sono le discussioni che risolvono le difficoltà e sanano i contrasti, soprattutto quando si tratta di affermare chiaramente cos’è che è conforme alla Tradizione e cos’è che diverge da essa. Trattandosi, infatti, di qualcosa che ha radici nel soprannaturale, è indispensabile che anche solo per mettersi a sedere insieme si abbia la stessa concezione del soprannaturale, e quindi la stessa concezione del naturale. Ora, si verifica, da cinquant’anni, che la concezione degli uomini e delle autorità della neo-Chiesa conciliare sia un miscuglio di naturale e di soprannaturale, dove il primo pretende di informare di sé il secondo, e questa concezione, che quanto meno è espressione di una macroscopica confusione, è stata quella che ha informato il Vaticano II e che trapela, in modo più o meno confuso, da tutti i documenti che esso ha prodotto, nonché dai documenti del magistero successivo.
È da tale concezione che deriva il famoso discorso di Paolo VI nel quale si afferma, stavolta chiaramente, che la Chiesa, quella del Concilio, “ha più di tutti il culto dell’uomo” (Discorso di chiusura del Concilio, 7 dicembre 1965).
Invero una strana affermazione, che in bocca al Papa diventa una vera e propria blasfemia. Cosa che dovrebbe fare inorridire e non indurre a pensare, come qualcuno scrive, che “Gesù Cristo può ancora parlare con la sua bocca”.

Ed è sempre da questa stessa concezione che deriva l’altrettanto famoso discorso di Benedetto XVI nel quale si afferma che «La Chiesa antica, con naturalezza, … mentre pregava per gli imperatori, ha invece rifiutato di adorarli, e con ciò ha respinto chiaramente la religione di Stato. I martiri della Chiesa primitiva sono morti per la loro fede in quel Dio che si era rivelato in Gesù Cristo, e proprio così sono morti anche per la libertà di coscienza e per la libertà di professione della propria fede… Una Chiesa missionaria, che si sa tenuta ad annunciare il suo messaggio a tutti i popoli, deve impegnarsi per la libertà della fede. Essa vuole trasmettere il dono della verità che esiste per tutti ed assicura al contempo i popoli e i loro governi di non voler distruggere con ciò la loro identità e le loro culture, ma invece porta loro una risposta che, nel loro intimo, aspettano – una risposta con cui la molteplicità delle culture non si perde, ma cresce invece l'unità tra gli uomini e così anche la pace tra i popoli»(Discorso alla Curia, 22 dicembre 2005).

Da cui chiunque può facilmente e immediatamente dedurre che la confusione fra soprannaturale e naturale è così inestricabile che si arriva a concepire una nuova Chiesa, che non avrebbe più il compito di convertire alla vera religione di Cristo l’uomo e la società in cui egli vive, perché possa guadagnarsi il premio della vita eterna. Una nuova Chiesa che, invece, confondendo il fine soprannaturale dell’uomo col suo fine naturale, avrebbe il compito di essere missionaria, sia per mantenere la molteplicità delle culture, sia per far crescere l’unità tra gli uomini di queste stesse culture diverse, in modo che si giunga alla pace tra tutti i popoli, caratterizzati, appunto, da tale sacrosanta diversità.

Da cui è possibile trarre un’esplicativa parafrasi del passo del Vangelo di San Giovanni (21, 15-17): Benedetto, figlio di Joseph, non pascere solo le mie pecorelle, ma raccogli in un unico gregge gli agnelli e i lupi”. Che poi, a ben guardare ha una seria corrispondenza con quanto Gesù dice a Pietro al successivo versetto 18: «quando sarai vecchio… un altro ti porterà dove tu non vuoi».
Se non fosse che noi uomini sono più le volte che sbagliamo che quelle che parliamo giusto, verrebbe da chiedersi se quanto uscito dalla bocca di questo Papa possa cattolicamente corrispondere a qualcosa che viene da Gesù Cristo.

Intendiamoci, non è sbagliato, come fa il Consiglio generale, fare un’affermazione di principio, ma non si può pretendere di farla prescindendo dalla realtà oggettiva in cui si trova “la bocca con cui parla Gesù Cristo” e misconoscendo il cinquantennale perdurare di questo stato di profonda dicotomia tra la volontà di Dio e le parole e le azioni dei papi del Concilio e del post-Concilio.

Il periodo della lettera che abbiamo esaminato adesso, si chiude con una considerazione che vale la pena sottolineare. Facendo seguito alla constatazione di una linea “chiaramente a favore della Tradizione”, si dice:
«Perché improvvisamente essa si troncherebbe, mentre invece noi facciamo di tutto per conservare la nostra fedeltà e accompagniamo i nostri sforzi con una preghiera poco comune? Il Buon Dio ci lascerebbe andare nel momento più cruciale? Questo non ha molto senso. Soprattutto quando noi non cerchiamo di imporgli una qualche volontà personale, ma cerchiamo di scrutare attraverso gli avvenimenti ciò che Dio vuole, a tutto disposti, come a Lui piacerà».

La domanda iniziale è chiaramente infondata, poiché dà per accertata quella “linea chiaramente a favore della Tradizione” che, come abbiamo appena visto, non lo è affatto. Ma la considerazione che ne segue, non solo non è ad essa conseguente, ma si presenta con un argomentare che per essere logico dovrebbe essere svolto alla rovescia.
È proprio il “conservare la nostra fedeltà”, è proprio il fatto che si tratti di un “momento cruciale”, è proprio il dovere di “scrutare attraverso gli avvenimenti ciò che Dio vuole”, che avrebbero dovuto portare alla conclusione che questa linea non è “a favore della Tradizione”, così che l’averla scambiata per tale e, di conseguenza, l’aver deciso di collaborare con essa, può comportare solo che “Dio ci lasci andare nel momento cruciale”,  proprio perché l’errore di valutazione fatto, contraddice il “facciamo di tutto per conservare la nostra fedeltà”. E quindi, ciò che non ha senso è il pregare “con una preghiera poco comune” per la realizzazione di qualcosa che è in contraddizione con il mantenimento della “nostra fedeltà”.
Come si può pensare tranquillamente che il Buon Dio non “lascerebbe andare” la Fraternità, dal momento essa per prima ritiene di potere e di dovere abbandonare la scialuppa di salvataggio che Egli le aveva offerta, per mano di Mons. Lefebvre, nel 1970 e poi nel 1988?

Da queste premesse, è inevitabile che il Consiglio generale giunga alla seguente conclusione:
«Al tempo stesso, essa manca di realismo, a riguardo dell’intensità degli errori e della loro ampiezza. Intensità: nella Fraternità si è in procinto di fare degli errori del Concilio delle super eresie, questo diventa come il male assoluto, peggiore di tutto, allo stesso modo in cui i liberali hanno dogmatizzato questo concilio pastorale. I mali sono già sufficientemente drammatici perché li si esageri ulteriormente. Non vi è più alcuna distinzione. Quando invece Monsignor Lefebvre ha fatto più di una volta le distinzioni necessarie a proposito dei liberali. Questa mancanza di distinzione conduce l’uno o l’altro di voi ad un irrigidimento “assoluto”. Questo è grave, perché questa caricatura è fuori dalla realtà e nel futuro sfocerà logicamente in un vero scisma. E questo fatto è uno degli argomenti che mi spinge a non più tardare a rispondere alle istanze romane».

Questo passo quasi parla da sé, ma non possiamo sorvolarlo, poiché in esso si coglie il mutamento, sia di prospettiva, sia di retrospettiva.
Poche osservazioni.
Se ritenere “gli errori del Concilio delle super eresie” e il Concilio stesso un “male assoluto”, può considerarsi un’esasperazione, non v’è dubbio che la ragion d’essere della Fraternità era ed è infondata. Se non altro perché 40 anni fa era più facile rendersi conto che si trattava solo di errori rimediabili, visto che la tenuta della compagine ecclesiale non era ancora giunta al disastro attuale. Se invece la Provvidenza volle la nascita della Fraternità, è perché non c’era bisogno “di fare degli errori del Concilio delle super eresie” e guardare al Concilio “come il male assoluto”. Bastò, bastava e basta considerare tutto questo per quello che è: gli errori del Concilio che sono delle eresie, e il Concilio che è un male, in quanto contenitore, propugnatore e diffusore di eresie. Tanto bastò a Mons. Lefebvre per opporvisi e per opporsi alle autorità ufficiali, e tanto dovrebbe bastare oggi ad un cattolico per resistere al pericolo di perdere la propria anima, rifiutandosi di dare credito a queste autorità ufficiali fintanto che esse non abbiano abbandonato tali eresie e tale errore.

Questa elementare constatazione non necessita di “alcuna distinzione”, poiché sarebbe davvero incredibile se si dovesse distinguere tra eresia ed eresia. Né può valere, in questo caso, la saggia considerazione che non tutto il Concilio sarebbe da mandare al macero, visto che esso giocoforza contiene diversi elementi che, tratti dal passato magistero, non rientrano negli errori moderni e nelle conseguenti eresie. Poiché bastano gli errori che esso contiene, per respingerlo, sia sulla base del suo impianto che è antitradizionale, e senza il quale non si sarebbero prodotti gli errori stessi, sia sulla base dei suoi sviluppi e delle sue applicazioni che, non solo hanno ampliato gli errori e sostanzialmente confermato le eresie, ma hanno trovato l’avallo del magistero successivo e la loro ulteriore conferma nella pratica della fede promossa dagli ultimi papi.

Così che non v’è alcun bisogno di distinguere, e la supposta esagerazione e l’altrettanto supposto irrigidimento, semplicemente non esistono, poiché denunciare e rifiutare le eresie, fossero pure le più semplici e le più contenute, è il minimo che un cattolico possa e debba fare. Senza che si possa parlare di “caricatura fuori dalla realtà”, perché anche una semplice eresia è già di per sé una caricatura e comporta un disastro per le anime.

Peraltro, dire eresia significa dire separazione, così che è il Concilio che ha rappresentato e rappresenta uno scisma rispetto alla Tradizione e quindi alla vera Chiesa, tale che se oggi qualcuno corre il rischio, rifiutando “rigidamente” il Concilio, di trovarsi in posizione scismatica, questo può considerarsi solo positivo, poiché, come diceva Mons. Lefebvre, attuare lo scisma nei confronti di chi si trova in rottura, in separazione, in stato di scisma con la vera Chiesa, con la Chiesa di sempre, significa proprio rimanere pienamente cattolico e in piena comunione con la Chiesa cattolica, apostolica, romana.

C’è un solo modo per poter considerare coerente il ragionamento svolto in questo passo della lettera, ed è quello che si evince dall’ultima frase: “E questo fatto è uno degli argomenti che mi spinge a non più tardare a rispondere alle istanze romane.”
Siamo al 14 aprile 2012, e il Consiglio generale dichiara espressamente di temere una deriva scismatica, che paventa come una catastrofe, ragion per cui si sente pressato a “rispondere alle istanze romane”.
Ora, è facilissimo considerare che ci sono solo due possibili risposte: o si rifiutano tali istanze, come suggerito e sollecitato dai tre vescovi, con tutto quello che ne consegue, scisma compreso, se è serio e reale parlare di scisma, o, volendo evitare il paventano scisma, si accettano tali istanze. E qui si dice, al 14 aprile, che tali istanze vanno accettate.
Il Consiglio generale grida a gran voce: piuttosto che lo scisma, meglio un accordo con Roma. Mons. Marcel Lefebvre, nel 1988, gridò a gran voce e fece in modo che il mondo intero lo ascoltasse: meglio lo scisma piuttosto che un accordo con Roma.

Se due più due fa quattro, qui ci troviamo di fronte ad un cambiamento di prospettiva palese e indiscutibile.

E questa constatazione è confermata da quest’altro passo della lettera:
«Ampiezza: da una parte si addossano alle attuali autorità romane tutti gli errori e tutti i mali che si trovano nella Chiesa, tralasciando il fatto che esse cercano almeno in parte di liberarsi dai più gravi di essi (la condanna dell’«ermeneutica della rottura» denuncia degli errori ben reali). Dall’altra si pretende che TUTTI siano ancorati a questa pertinacia («tutti modernisti», «tutti marci»). Ora, questo è chiaramente falso. Una gran maggioranza è sempre implicata nel movimento, ma non tutti. Al punto che sulla questione cruciale tra tutte, quella della possibilità di sopravvivere nelle condizioni di un riconoscimento della Fraternità da parte di Roma, noi non arriviamo alla vostra stessa conclusione.»

Passo che va letto, non dall’inizio, ma dalla fine: «Al punto che sulla questione cruciale tra tutte, quella della possibilità di sopravvivere nelle condizioni di un riconoscimento della Fraternità da parte di Roma, noi non arriviamo alla vostra stessa conclusione».
E cioè: noi siamo convinti che una volta che Roma riconoscesse la Fraternità, questa potrebbe continuare a sopravvivere. E perché? Perché sarebbe falso che a Roma “tutti siano ancorati a questa pertinacia”, perché sarebbe falso che siano tutti modernisti e tutti marci… lo è la maggioranza, ma non tutti.
Questa distinzione, in bocca a chi da 40 anni si batte contro le autorità romane, per il bene della Chiesa, è davvero curiosa, poiché, a rigor di logica, è proprio in forza di tale maggioranza che vanno rigettate le istanze romane, come affermano i tre vescovi. Tranne che della minoranza che non sarebbe implicata, non facciano parte il Papa e i cardinali, cioè quelle stesse autorità romane di cui si parla.
Un curioso ed amletico modo di esprimersi, che obbliga a pensare che in quel 14 aprile, il Consiglio generale sapesse con certezza che il Papa e i cardinali avessero rinunciato agli errori del Concilio e avessero smesso di sostenere il Concilio stesso. Notizia clamorosa, che il Consiglio generale avrebbe tenuto inspiegabilmente nascosta ai tre vescovi, come se non facessero parte della Fraternità con la massima dignità.
Notizia, però, che è “chiaramente falsa”, perché non c’è bisogno di far parte del Consiglio generale della Fraternità per sapere con certezza che la verità è tutto il contrario. Lo sanno anche le pietre. Tale che questa distinzione tra “maggioranza” e “minoranza” delle autorità romane, in realtà si rivela essere un espediente per far passare per certezze oggettive le impressioni e le gratuite deduzioni del Consiglio generale, chiaramente scaturite dal mutamento di prospettiva e poggianti sul desiderio manifesto di concludere un accordo con Roma per paura di cadere nello scisma nei confronti della scismatica neo-Chiesa conciliare.

E questa non è una nostra gratuita e prevenuta illazione, ma è ciò che sta scritto in queste stesse righe che abbiamo riportato.
Rileggiamo: «da una parte si addossano alle attuali autorità romane tutti gli errori e tutti i mali che si trovano nella Chiesa». 
Ora, gli errori e i mali della Chiesa non possono essere attribuiti alla Chiesa stessa, perché la Chiesa è santa, quindi è inevitabile che debbano essere attribuiti agli uomini di Chiesa, così oggi come in duemila anni di storia della Chiesa. Ma attribuirli agli uomini di Chiesa, non significa attribuirli ai semplici fedeli, significa solo che vanno attribuiti ai pastori e ai pastori dei pastori, ai vescovi, ai cardinali e ai papi. A chi se no?
E i vescovi e i cardinali e i papi sono esattamente quelle autorità che il Consiglio generale scagiona, così che quella contraddetta dal Consiglio generale è una realtà che prima ancora di essere oggettiva è una realtà tecnica: gli uomini di Chiesa sono le autorità ufficiali… è un fatto incontrovertibile per la natura stessa della Chiesa visibile.

E quest’altra espressione rafforza questo nostro semplice ragionamento: «esse [le attuali autorità romane] cercano almeno in parte di liberarsi dai più gravi di essi (la condanna dell’«ermeneutica della rottura» denuncia degli errori ben reali)».

È da anni che seguiamo questa problematica, ma è la prima volta che leggiamo che le attuali autorità romane cercano di liberarsi dai più gravi degli errori e dai mali che derivano dal Concilio e che stanno demolendo la Chiesa. Anche a voler ammettere che le cose stiano effettivamente così, in questa lettera si sarebbe dovuto menzionare almeno uno di questi tentativi, invece è tutto lasciato sul generico perché anche questa affermazione non corrisponde alla realtà.
Primo perché non esiste un elenco ufficiale, o ufficioso, degli errori e dei mali, né semplice, né per ordine di gravità – tolti i vari elenchi stilati dalla stessa Fraternità.
Secondo perché sono proprio gli errori più gravi, segnalati ed esaminati ormai da 40 anni, che i papi, i cardinali e vescovi hanno praticato ed esaltato e continuano a praticare e ad esaltare. E il Consiglio generale sa che stiamo parlando dell’ecumenismo, della libertà religiosa, della collegialità e della riforma liturgica, perché proprio di questo si è parlato dentro e fuori la Fraternità da 40 anni… fino a questa lettera del 14 aprile.

A voler credere a quanto scritto qui, sembrerebbe che, per esempio, l’attuale massima autorità romana, il Papa Benedetto XVI, si sia rifiutato di recarsi ad Assisi, il 27 ottobre 2011, per cercare di liberarsi dai gravi errori del suo predecessore.

O siamo noi che siamo informati male o è male informato il Consiglio generale.

E a leggere l’inciso contenuto in questo passo della lettera (la condanna dell’«ermeneutica della rottura» denuncia degli errori ben reali), non v’è dubbio che si tratta proprio di questo secondo caso. Il Consiglio generale, non solo manifesta una cattiva informazione, ma dà l’impressione di non aver mai letto tutto quello che deriva dallo stesso documento papale che cita implicitamente.

Quando, il 22 dicembre 2005, il neo eletto Pontefice formula la sua ipotesi di lettura dei documenti del Concilio secondo una “ermeneutica della riforma nella continuità”, è verissimo che denuncia gli errori della “ermeneutica della rottura”, ma parla testualmente di “ermeneutica della discontinuità e della rottura”, indicando così, come è stato ripetuto in questi sette anni a destra e a manca e in basso e in alto, non solo gli errori dei modernisti spinti, ma anche i supposti errori della Fraternità, ed è ad entrambi che egli chiede di adottare la sua ipotesi di corretta ermeneutica: ai primi invitandoli a recedere da certi eccessi, alla Fraternità invitandola ad accettare il Concilio alla luce della sua “ermeneutica della riforma nella continuità”.
È sorprendente che il Consiglio generale glissi su questo aspetto, ed elogi di fatto la pretesa del Papa di voler correggere quelli che lui ritiene siano gli errori della Fraternità. E ci limitiamo a dire che è sorprendente, perché non vogliamo arrivare a pensare che il Consiglio generale abbia già sposato e fatta sua l’ipotesi inconsistente di Benedetto XVI.

Considerati tutti questi elementi, si rimane esterrefatti di fronte al periodo conclusivo di questa lettera:
«Voi non potete sapere quanto in questi ultimi mesi la vostra attitudine – molto diversa per ciascuno di voi – sia stata dura per noi. Essa ha impedito al Superiore generale di comunicarvi e di farvi partecipi di queste grandi preoccupazioni, alle quali vi avrei molto volentieri associato, se non si fosse trovato davanti ad una incomprensione così forte e così passionale. Quanto avrebbe amato poter contare su di voi, sui vostri consigli per sostenere questo passo così delicato della nostra storia. È una grande prova, forse la più grande del suo superiorato. Il nostro venerato fondatore ha assegnato ai vescovi della Fraternità un compito e dei doveri precisi. Egli ha mostrato che il principio che fa l’unità della nostra società è il Superiore Generale. Ma già da un certo tempo voi cercate – ciascuno in maniera diversa – di imporgli il vostro punto di vista, anche sotto forma di minacce, e perfino pubblicamente. Questa dialettica tra verità/fede e autorità è contraria allo spirito sacerdotale. Egli avrebbe almeno sperato che voi cercaste di comprendere gli argomenti che lo spingono ad agire come ha agito in questi ultimi anni, secondo la volontà della divina Provvidenza».

Ora, che il Superiore generale sia il “principio che fa l’unità” della Fraternità è certamente una metafora, poiché il principio di una cosa è, scontatamente, la sua ragion d’essere, l’elemento superiore che fonda la cosa stessa e ne assicura l’unità. E in questa ineludibile ottica, il Superiore generale è uno dei componenti della Fraternità, certo il più importante e il più carico di responsabilità, quello che detiene l’onere della sua gestione sulla base di questa ragion d’essere. Ma non è un’entità che agisce in assoluta autonomia perché ritiene, lui, di agire “secondo la volontà della divina Provvidenza”.
E un Superiore generale che svolge scrupolosamente il suo compito oneroso, non può cavarsela dicendo che «Voi non potete sapere quanto in questi ultimi mesi la vostra attitudine – molto diversa per ciascuno di voi – sia stata dura per noi. Essa ha impedito al Superiore generale di comunicarvi e di farvi partecipi di queste grandi preoccupazioni, alle quali vi avrebbe molto volentieri associato, se non si fosse trovato davanti ad una incomprensione così forte e così passionale».
Il compito teorico e pratico di un qualsiasi Superiore generale di un qualsiasi organismo, è proprio quello di cogliere le diverse comprensioni dei suoi sottoposti, soprattutto se, come in questo caso, si tratta di sottoposti rivestiti della dignità episcopale, e nel coglierle, valutarle sulla base della ragion d’essere dell’organismo che è stato chiamato a dirigere, e non sulla base della sua personale preoccupazione e del suo personale convincimento, tale che decide di non consultare tutti coloro che egli stesso ritiene non siano d’accordo con lui.
Per assolvere al meglio il proprio compito, il Superiore generale consulta proprio quelli che ritiene non siano d’accordo con lui,  perché consultare solo quelli che sono d’accordo è come consultare se stesso nel proprio angolo privato. E il far questo non significa avallare una “dialettica tra verità/fede e autorità”, “contraria allo spirito sacerdotale”; non significa instaurare una “conferenza episcopale” della Fraternità; tutt’altro, significa assolvere il proprio dovere di stato, cercando di comprendere le ragioni degli altri vescovi; significa dare prova di prudenza e di attenzione, soprattutto quando si tratta di questioni tanto importanti e delicate, che, tra l’altro, stanno provocando turbamento e confusione e divisione tra i chierici e i laici; significa dimostrare di avere a cuore il bene dell’organismo che si dirige, e non solo il proprio personale convincimento. E quanto più le incomprensioni altrui appaiono “così forti e così passionali”, tanto più il Superiore generale deve sentirsi in dovere di mettere da parte il proprio io, per mettere in primo piano il bene dell’organismo che dirige, che non è il suo, ma è di tutti e, in questo caso, è addirittura quell’organismo che è nato e sopravvive per il bene della Chiesa e delle anime.
Com’è stato possibile che il Consiglio generale sia giunto a scegliere di governare la Fraternità in una sorta di “splendido isolamento”?
La risposta la si trova in una citazione di Mons. Lefebvre apparsa nel Comunicato della Casa Generalizia del 24 ottobre 2012: «Come può esercitarsi l'autorità se bisogna chiedere a tutti i membri di partecipare all'esercizio dell'autorità?»
Parole sante! Che ricordano che l’esercizio dell’autorità è, per definizione, un atto non democratico.

Questa citazione, però, che avrebbe l’aria di porre un punto fermo, in realtà introduce un’ulteriore problematica, perché presenta ad un tempo: un elemento negativo e un elemento problematico.
L’elemento negativo è che essa non è applicabile al modo in cui il Consiglio generale ha inteso esercitare l’autorità in questi ultimi mesi: qui Mons. Lefebvre dice che non si può esercitare l’autorità con la democrazia, cioè senza l’autorità; ebbene, nessuno ha mai chiesto al Consiglio generale di partecipare all’esercizio della sua autorità, tantomeno i tre vescovi.
L’elemento problematico è che questa citazione mette ancor più in risalto il fatto che il Consiglio generale ha inteso esercitare la sua autorità prescindendo dalla responsabilità, dalla prudenza e dal consiglio. Ha esercitato l’autorità per l’autorità, ritenendo di non dover tenere conto della sensibilità e della competenza degli altri membri della Fraternità. Ritenendo che fosse impossibile che la volontà della divina Provvidenza potesse esprimersi anche attraverso i “punti di vista” diversi dal suo. Una concezione dell’autorità che la Fraternità ha rigettato e combattuto da 40 anni, perché ha portato e sta portando alla demolizione progressiva della Chiesa.
E la cosa curiosa è che, trattandosi della stessa concezione dell’autorità che si continua a coltivare a Roma, non si può fare a meno di ritenere che, in questo famoso 14 aprile, il Consiglio generale avesse deciso di accettare le istanze romane proprio sulla base di questa “comunione d’intenti”: … similes cum similibus congregantur.

Abbiamo trovato la risposta alla domanda che ci siamo posti all’inizio?

Solo in parte, perché per adesso possiamo dire di avere individuato un corposo mutamento di prospettiva nel Consiglio generale. Ma questo non basta per poter concludere che la Fraternità abbia mutato o non abbia mutato la propria ragion d’essere. Tanto più che le divergenze all’interno della Fraternità e la posizione dei tre vescovi rispetto al Consiglio generale, fanno pensare chiaramente che non c’è identità tra quest’ultimo e la Fraternità.

Peraltro, mentre stilavamo queste note, si sono verificati dei fatti nuovi, tutti attinenti all’argomento che abbiamo trattato qui, e di una rilevanza enorme. Fatti che si possono sintetizzare in questa frase pronunciata, nel corso di un'omelia, dal Superiore generale l’11 novembre scorso a Parigi, nella chiesa di Saint Nicolas du Chardonnet, simbolo della opposizione della Fraternità nei confronti di Roma: “Chiediamo in tutte le nostre preghiere, in ogni Messa, questa grazia della fedeltà, di non cedere in niente, costi quel che costi”.

Il che ci obbliga a completare con una terza parte queste nostre riflessioni, sia per onestà intellettuale, sia, e soprattutto, perché queste novità mandano in frantumi tutta la politica del Consiglio generale nei confronti di Roma e tutta l’azione da esso condotta all’interno nei confronti del Capitolo, dei sacerdoti e dei fedeli.
 



(terza e ultima parte)


di Belvecchio


Ragion d’essere in problematica?


 Nel chiudere la seconda parte di queste riflessioni, dicevamo: “Ma questo non basta per poter concludere che la Fraternità abbia mutato o non abbia mutato la propria ragion d’essere”.
In effetti, occorre esaminare quanto è stato espresso ultimamente in maniera ufficiale da alcuni organi della Fraternità. Per far questo guarderemo ancora alle dichiarazioni dei quattro vescovi, richiamandoci, ove occorra, alle dichiarazioni e alle decisioni del Capitolo generale e della Casa Generalizia.

Il 16 settembre scorso, Mons. Bernard Tissier de Mallerais, ha tenuta una conferenza a Gastines, in Francia, dal titolo: “Lo spirito della Fraternità Sacerdotale San Pio X”. L’ultima parte di questa conferenza è riportata nel nostro sito, quindi qui richiameremo solo alcuni passi salienti.

«Evidentemente, nel 1988 la Santissima Vergine non aveva voluto che questo accadesse, … l’accordo immaginato nel 2011-2012 è durato sei mesi, non è stato benedetto dalla Santa Vergine. […] Io vi dico ciò che penso. E penso anche che voi non dovete avere paura, perché non sono il solo a pensarla così nella Fraternità. E poi, ecco, dobbiamo avere fiducia nella Santa Vergine che ci ha trattenuti dal fare un passo molto sbagliato, è vero. Quest’anno Ella ci ha impedito di fare questo passo sbagliato, non ha voluto saperne di questa storia dell’accordo. Cioè del fatto che andassimo a Roma a sottometterci alle autorità conciliari. Certo, si tratta delle autorità della Chiesa, il Papa è il successore di Pietro, ma egli è anche il rappresentante di questo sistema di Chiesa, che imbavaglia la Chiesa, che paralizza la Chiesa, che avvelena la Chiesa, il rappresentante di ciò che si chiama, per comodità di linguaggio, la Chiesa conciliare. Non è un’altra Chiesa, è un nuovo tipo di Chiesa, è una nuova religione che è penetrata nella Chiesa cattolica, col sostegno dei papi e di tutta la gerarchia, di tutti i vescovi, salvo alcune rarissime eccezioni. […] Come volete che saremmo sopravvissuti in tali condizioni? … Ecco, questa è la mia determinazione come vescovo della Fraternità e penso che questa sia la determinazione di tutti. […] Allora, si è svolto questo Capitolo generale che abbiamo riunito nel mese di luglio, e lì abbiamo preso delle decisioni molto dolci, morbide, come si dice. Cioè, presentare a Roma degli ostacoli tali che Roma non osi più importunarci, porre delle condizioni praticamente irrealizzabili per impedire che ci facciano delle nuove proposte».

Dal canto suo, Mons. Alfonso de Galarreta, il 13 ottobre scorso, in una conferenza a Villepreux , in Francia, anch’essa reperibile sul nostro sito, ha detto:
«Il Capitolo si è svolto come vi ho detto e io penso che noi abbiamo veramente tratto delle lezioni utili dalle prove che abbiamo vissute, anche se non tutto è perfetto, cosa che costituisce un altro aspetto di cui bisogna tenere conto. […] Secondo me, noi abbiamo veramente superato la crisi, l’abbiamo lasciata alle spalle, e com’era necessario, soprattutto nelle misure pratiche, grazie alle discussioni che ci hanno permesso di chiarire tra noi alcuni punti, di valutare bene gli argomenti, sotto tutti gli aspetti, di selezionarli, di giungere ad una visione più chiara, più lucida della situazione, cosa che costituisce il vantaggio delle prove, se se ne traggono delle lezioni. A partire da queste discussioni estremamente importanti e ricche, abbiamo stabilito delle condizioni che potrebbero permettere di considerare ipoteticamente una normalizzazione canonica, e a questo proposito, se riflettete bene, ciò che è stato fatto equivale all’aver preso tutta la questione dottrinale e liturgica per farne una condizione pratica. […] E in questo Capitolo è stato anche deciso che mai la Casa generalizia potrà pervenire a qualcosa di valido e di interessante con queste condizioni, vi sarà un Capitolo deliberativo, il che significa che la sua decisione vincolerà. […] Un Capitolo deliberativo significa che la decisione presa dalla maggioranza assoluta – la metà più uno, cosa che ci è sembrata ragionevole – tale decisione sarà seguita dalla Fraternità. Come ha provato il recente Capitolo, il giorno in cui abbiamo potuto parlare tra noi, come si doveva, abbiamo superato il problema dei disaccordi che avevamo conosciuti. È evidente che un Capitolo deliberativo costituisce una misura molto saggia e sufficiente per approvare eventualmente ciò che si sarà potuto ottenere da Roma. Poiché è quasi impossibile che la maggioranza, il Superiore della Fraternità – dopo una discussione franca, un’analisi approfondita di tutti gli aspetti, di tutti i pro e i contro -, è impensabile che la maggioranza si sbagli in materia prudenziale. In questa vita, non v’è alcuna garanzia assoluta, perché ciascuno – a cominciare da me stesso – non ha tutte le garanzie su ciò che farà domani. Così un Capitolo è largamente sufficiente per uscire dallo stallo nel quale ci trovassimo, poiché, se voi guardate bene, questo nostro ultimo Capitolo ha posto esattamente le stesse condizioni di Roma, ma al contrario. Loro esigono da noi la tal cosa, noi il contrario. Evidentemente la possibilità di un accordo si allontana e soprattutto il rischio di un cattivo accordo, a mio avviso, è definitivamente scartato. Definitivamente, cioè non per sempre, ma per questa volta qui. Noi abbiamo anche evitato una divisione tra noi, e questo non è poca cosa, bisognava quanto meno riflettervi e comprendere che andavamo a dividere tutto, nella Fraternità, nelle Congregazioni, nelle famiglie, e siccome noi siamo piuttosto temibili nella battaglia, ci saremmo dilaniati con una forza, una costanza… voi l’immaginate! La realtà era proprio questa. Ma grazie a questa comprensione tra noi, grazie a questa decisione, anche se è imperfetta, abbiamo superato una divisione che sarebbe stata una sorta di disonore per ciò che difendiamo, per la vera fede, per la nostra battaglia, per quelli che ci hanno preceduti, Mons. Lefebvre e Mons. de Castro Mayer».

Mons. Richard Williamson, nei suoi commenti settimanali del periodo interessato, tutti reperibili sul nostro sito, ha sostenuto che non si può accettare l’idea di un accordo pratico senza la previa verifica che Roma abbia abbandonato gli errori del Vaticano II. Citiamo ad esempio due frasi. Una relativa alla S. Messa:
«Fino a quando Roma crederà nella sua dottrina conciliare non potrà non utilizzare un tale accordo per spingere la FSSPX in direzione del Concilio, e il contesto di ogni Messa celebrata dalla FSSPX diverrebbe conciliare, se non rapidamente, certo nel lungo periodo. Uomo avvisato è mezzo salvato» (Infezione conciliare. Commento 263 del 28 luglio 2012).
Ed una relativa alla dottrina:
«I Romani conciliari sono trainati dal Vaticano II, ed è questa loro nozione centrale che li porta a cancellare la FSSPX, che rigetta il Vaticano II, e finché non riusciranno in questo, o cambieranno tale loro nozione centrale, continueranno ad essere portati a dissolvere la FSSPX di Mons. Lefebvre. Di contro, il centro motore dei chierici e dei laici della FSSPX è il raggiungimento del Paradiso, partendo dall’idea che il Paradiso e l’Inferno esistono, e che Gesù Cristo e la Sua vera Chiesa forniscono il solo e unico modo sicuro per andare in Paradiso. Essi sanno che questa dottrina che li guida non è una loro fantasiosa invenzione, quindi non vogliono che essa possa essere minata o sovvertita o corrotta dai miserabili neo-modernisti della neo-Chiesa, guidati dalla loro falsa, conciliare, nozione di Dio, dell’uomo e della vita. Lo scontro è totale» (Ancora la dottrina. Commento 266 del 18 agosto 2012)..

Mons. Bernard Fellay, com’è logico, si è espresso in diverse occasioni, proprio in forza del fatto che è il Superiore generale della Fraternità; richiameremo qui solo qualche passo significativo strettamente legato alla possibilità di stabilire o meno un accordo con Roma.
«È con la Chiesa reale che noi abbiamo dei problemi. Ecco cosa rende le cose ancora più difficili: il fatto che è con essa che abbiamo dei problemi. Questo non ci autorizza, per così dire, a sbattere la porta. Al contrario, è nostro dovere andare sempre a Roma, bussare alla porta e chiedere, non di entrare (poiché siamo già dentro), ma pregarli di convertirsi, di cambiare e di ritornare a ciò che fa la Chiesa […] Questa prova finirà, non so quando. Talvolta questa fine sembra approssimarsi, tal’altra sembra allontanarsi. Dio conosce i tempi, ma, umanamente parlando, bisognerà attendere un bel po’ prima di cominciare a vedere che le cose migliorano – cinque, dieci anni. […] È per questo che nei nostri colloqui dottrinali con Roma noi eravamo, per così dire, bloccati. In questi colloqui con Roma, la questione chiave era in definita quella del Magistero, dell’insegnamento della Chiesa. Ci dicono: «noi siamo il Papa, noi siamo la Santa Sede», cosa che accettiamo. E loro proseguono… E loro insistono: … E loro ordinano: «allora, obbedite», e noi diciamo: «no». Loro ci rimproverano di essere dei protestanti, perché poniamo la nostra ragione al di sopra del Magistero odierno. E allora noi rispondiamo: «voi siete dei modernisti, voi pretendete che l’insegnamento di oggi possa essere diverso da quello di ieri». […] Loro affermano che dev’esserci Tradizione, che dev’esserci continuità, e quindi vi è continuità. Il Vaticano II è stato fatto dalla Chiesa, nella Chiesa dev’esserci continuità, dunque il Vaticano II appartiene anche alla Tradizione. E noi subito: «scusate, cos’è che dite? […] Quali parole troveremo per dire che siamo d’accordo o che non lo siamo? Se loro accettano i principi che abbiamo sempre sostenuto, è perché questi principi per loro significano ciò che loro pensano, e che è in esatta contraddizione con ciò che affermiamo noi. Credo che non ci si possa spingere oltre nella confusione.» (Omelia a Winona, USA, 2 febbraio 2012).


Dalla lettura di questi passi si comprende come i quattro vescovi abbiano una visione concorde sui rapporti con Roma e, in sostanza, confermino che la ragion d’essere della Fraternità è quella indicata fin dall’inizio da Mons. Lefebvre, come sintetizzato dallo stesso Mons. Fellay: «La prima questione, per noi che siamo stati consacrati da Mons. Lefebvre, era quella della sopravvivenza della Tradizione» (Intervista a DICI, 8 giugno 2012).

Tuttavia, com’è noto, e come ha spiegato Mons. de Galarreta, soprattutto in quest’ultimo anno la Fraternità ha vissuto «il problema dei disaccordi che avevamo conosciuti». Disaccordi che il Capitolo generale del luglio scorso avrebbe superato, ma dei quali è necessario comprendere la causa, perché se è vero che in qualche modo «noi abbiamo veramente superato la crisi», è anche vero che non si è trattato di disaccordi di metodo, bensì di disaccordi di merito, tali da comportare, non solo la messa in problematica della ragion d’essere della Fraternità, ma la sua stessa esistenza, viste le rotture che si sono prodotte e che possiamo sintetizzare nei due fatti più eclatanti: l’espulsione o l’allontanamento di più di dieci sacerdoti, e l’“esclusione” di uno dei quattro vescovi. Due fatti che parlano di una vera e propria crisi.

Con modalità e accenti diversi, questa crisi si è prodotta intorno alla possibilità di poter concludere o meno un accordo con Roma nelle condizioni attuali. Ora, se tutto si fosse svolto sul piano del confronto delle posizioni, mai si sarebbe giunti ad una crisi. Se questo è accaduto è perché non si è trattato di posizioni da confrontare, ma di decisioni da accettare o da respingere. Decisioni che, in maniera più o meno dichiarata, erano state potenzialmente assunte dal Consiglio generale e aspettavano solo di essere ratificate. Ne testimoniano due elementi cruciali del Capitolo di luglio: l’arrivo della lettera del Papa e la decisione assunta dal Capitolo di convocare “eventualmente” un Capitolo deliberativo.

Circa il fatto che il Papa Benedetto XVI abbia praticamente evitato la spaccatura della Fraternità, leggiamo quanto raccontato da Mons. de Galarreta:
«E appena prima del Capitolo, durante il ritiro che l’ha preceduto, Monsignore ricevette una risposta – era la prima volta che vi era una risposta del Papa a Mons. Fellay – e a tavola alla fine del ritiro ci disse: ho ricevuto una lettera del Papa nella quale mi conferma che la risposta della Congregazione della Fede è la sua risposta, che egli l’ha approvata. Ed egli ricorda, riassumendole i tre punti, le loro esigenze, le loro condizioni sine qua non per un riconoscimento canonico: 1) riconoscere che il magistero vivente è l’interprete autentico della Tradizione, cioè le autorità romane; 2) che il concilio Vaticano II è in perfetto accordo con la Tradizione, che bisogna accettarlo; 3) che noi dobbiamo accettare la validità e la liceità della nuova Messa» (Conferenza a Villepreux, Francia, 13 ottobre 2012).

Praticamente, fino alla mattina del 9 luglio il Consiglio generale era convinto che le condizioni poste da Roma non fossero le condizioni del Papa, così che si sarebbe potuto definire un accordo sulla base del convincimento che il Papa avrebbe deciso “motu proprio”, non tenendo conto dei documenti della Congregazione per la Dottrina della Fede.
Vedremo dopo come questo convincimento fosse stato più volte ribadito ed avesse provocato la reazione di tanti chierici e laici, fino alla disubbidienza. Reazione che, per un verso, il Consiglio generale ha trattato in maniera “burocratica”, con le pesanti conseguenze che ne sono derivate, ma che per altro verso è stata determinante per far sorgere dei dubbi al Consiglio generale stesso, fino al punto di indurlo a chiedere direttamente al Papa cosa volesse veramente.
Ora, mentre va dato atto al Consiglio generale della opportunità di quest’ultima decisione assunta, è inevitabile porsi la domanda: se nel Consiglio generale non si fosse prodotto un mutamento di prospettive, come sarebbe stato possibile anche solo pensare che il Papa potesse non chiedere sine qua non ciò che ha sempre chiesto e che adesso ha ribadito?
Uno degli elementi che ha prodotto la crisi è stato proprio questo mutamento di prospettive che, come ha ricordato Mons. Tissier de Mallerais, ha beneficiato dell’intervento di Dio con la solenne smentita dello stesso Papa.

L’altro elemento, è indicato dalla decisione assunta dal Capitolo: «Abbiamo definito ed approvato delle condizioni necessarie per una eventuale regolarizzazione canonica. Si è stabilito che, in questo caso, sarà convocato prima un Capitolo straordinario deliberativo».
Una decisione che avrebbe dovuto rientrare nella prassi ordinaria, vista soprattutto l’importanza della posta in giuoco, e che invece rivela una grossa lacuna nella politica decisionale del Consiglio generale. Se si è sentito il bisogno di mettere per iscritto l’obbligo di una procedura che avrebbe dovuto essere semplicemente logica, è perché è stato implicitamente riconosciuto che fino al 9 luglio il Consiglio generale non aveva seguito tale semplice logica, ma aveva inteso imporre il proprio esclusivo convincimento, provocando dissensi e rifiuti e rischiando di fare esplodere la Fraternità.
Intendiamoci, tutto è bene quel che finisce bene, ma ciò non toglie che le cause vadano approfondite, chiarite e fugate. E per far questo è necessario rileggere certe dichiarazioni e coglierne i punti deboli.

«Bisogna riconoscere che questi colloqui hanno permesso di esporre chiaramente i diversi problemi che noi riscontriamo a proposito del Vaticano II. Ciò che è cambiato è che Roma non fa più dell’accettazione totale del Vaticano II una condizione per la soluzione canonica. Oggi, a Roma, certuni ritengono che una diversa comprensione del Concilio non è determinante per l’avvenire della Chiesa, poiché la Chiesa è più del Concilio. Infatti la Chiesa non si riduce al Concilio, essa è molto più grande. Occorre dunque dedicarsi a risolvere i problemi più vasti. Questa presa di coscienza può aiutarci a comprendere ciò che accade realmente: noi siamo chiamati ad aiutare a portare agli altri il tesoro della Tradizione che abbiamo potuto conservare. […] Certo, questo non annulla tutti i problemi, vi sono ancora della gravi difficoltà nella Chiesa: l’ecumenismo, Assisi, la libertà religiosa… ma il contesto sta cambiando e non solo il contesto, la situazione stessa… Io distinguerei tra le relazioni esterne e la situazione interna. Le relazioni con l’esterno non sono ancora cambiate, ma per ciò che accade nella Chiesa le autorità romane cercano di cambiarlo un po’ la volta. Evidentemente, oggi permane ancora un gran disastro, bisogna esserne coscienti, e noi non diciamo il contrario, ma bisogna anche vedere ciò che si sta facendo. […] In questa situazione, attualmente presentata da certuni come una situazione impossibile, ci si chiede di venire a lavorare come hanno fatto tutti i santi riformatori di tutti i tempi. Certamente, questo non elimina il pericolo. Ma se noi abbiamo sufficiente libertà per agire, per vivere e per svilupparci, questo si deve fare. Penso davvero che questo si debba fare, a condizione che noi si abbia la protezione sufficiente. […] Ma penso realmente che la preoccupazione principale tra noi sia piuttosto quella della fiducia nelle autorità romane, col timore che quello che potrebbe succedere sia una trappola. Personalmente sono convinto che non sia così. Da noi non ci si fida di Roma, perché si sono subiti troppi rovesci, è per questo che si pensa che si possa trattare di una trappola. Vero è che i nostri nemici possono pensare di utilizzare questa offerta come una trappola, ma il Papa, che vuole veramente questo riconoscimento canonico, non ce lo propone come una trappola. […] Si, è il Papa che lo vuole e l’ho detto a più riprese. Sono in possesso di sufficienti elementi precisi per affermare che ciò che dico è vero, benché io non abbia avuto delle relazioni dirette col Papa, ma con i suoi stretti collaboratori. Circa la loro posizione [dei tre vescovi], io non escludo la possibilità di un’evoluzione. La prima questione, per noi che siamo stati consacrati da Mons. Lefebvre, era quella della sopravvivenza della Tradizione. Io penso che se i miei confratelli vedono e comprendono che in linea di diritto e di fatto nella proposta romana vi è una vera possibilità per la Fraternità di «restaurare tutto in Cristo», malgrado tutti i problemi che sussistono oggi nella Chiesa, allora potranno correggere il loro giudizio, - allora, significa con lo statuto canonico in mano e i fatti sotto gli occhi. Sì, io lo penso. Lo spero. E noi dobbiamo pregare con questa intenzione.» (Intervista di Mons. Bernard Fellay, rilasciata a DICI, l’8 giugno 2012)

In questa intervista dell’8 giugno, che richiama quanto accaduto nei mesi precedenti, a partire dalla consegna del famoso preambolo dottrinale, si precisa in maniera decisiva che la chiave di lettura degli eventi, che deve guidare la decisione della Fraternità nei confronti dell’offerta di Roma, è il fatto che «Ciò che è cambiato è che Roma non fa più dell’accettazione totale del Vaticano II una condizione per la soluzione canonica». Un convincimento basato su una certezza: «Si, è il Papa che lo vuole e l’ho detto a più riprese. Sono in possesso di sufficienti elementi precisi per affermare che ciò che dico è vero, benché io non abbia avuto delle relazioni dirette col Papa, ma con i suoi stretti collaboratori».

Ora, qui era in ballo, non solo il futuro della Fraternità, ma anche il futuro della sopravvivenza della Tradizione nella Chiesa. Era in ballo la stessa ragion d’essere della Fraternità in funzione del perdurare della testimonianza della verità e del perseguimento del bene delle anime. Così che appare evidente che, a quella data, il Consiglio generale avesse deciso che l’accordo potesse e dovesse essere concluso, e che i dissensi dovessero rientrare sulla base di questo suo convincimento. Riferendosi ai tre vescovi, infatti, nell’intervista è detto: «Io penso che se i miei confratelli vedono e comprendono che in linea di diritto e di fatto nella proposta romana vi è una vera possibilità per la Fraternità di «restaurare tutto in Cristo», malgrado tutti i problemi che sussistono oggi nella Chiesa, allora potranno correggere il loro giudizio».
Quindi, non solo la possibilità della regolarizzazione canonica, ma perfino la «vera possibilità per la Fraternità» di capovolgere l’attitudine attuale della Chiesa conciliare, fino a «restaurare tutto in Cristo».
Un convincimento che, ovviamente, non poteva accettare dissensi e disubbidienze, poiché queste sarebbero equivalse al voler rinunciare al felice epilogo di quarant’anni di lotta, sulla base di opinioni personali che non tenevano conto dei dati oggettivi.
Non v’è dubbio che, messe così le cose, il Consiglio generale dovesse esercitare tutta la sua autorità per impedire che le opinioni personali di pochi mettessero in problematica l’ormai raggiunto accordo per il bene della Tradizione. È da qui che sono nati i problemi ed è nata la crisi che ha portato la Fraternità sull’orlo di una profonda spaccatura. È da qui che è nata la diffidenza e perfino la sfiducia nella direzione della Fraternità, poiché ciò che al Consiglio generale appariva chiaro ed evidente, a molti appariva invece inverosimile, fino a far trapelare il sospetto della colpevole leggerezza o perfino del dolo. Eppure, alla luce dei fatti accaduti, sembrerebbe che i dati in possesso del Consiglio generale dovessero essere talmente incontrovertibili da giustificare tutti i provvedimenti disciplinari presi.

Per cercare di comprendere se questo è vero ci si deve rifare all’ultima omelia di Mons. Bernard Fellay, dell’11 novembre. In essa, il Superiore generale espone lo stato delle cose e la conclusione che ne deriva.

«E questo mistero [della coesistenza del buon grano e della zizzania] ci ha toccati un po’ più intimamente in questi ultimi mesi. Noi l’abbiamo visto fin nella nostra cara Fraternità: una confusione, una mala erba, una zizzania, un disordine. Dio l’ha permesso, come lo permette nella Chiesa, come lo permette, si può dire, in ogni società. È un grande mistero del Buon Dio. […] Voglio guardare con voi, molto brevemente, a questi mesi che hanno causato non poche sofferenze, per trarne qualche lezione; anche al fine di poterci ritrovare, se è necessario. Voi sapete che questi tempi di disordine – sì, parlo delle nostre relazioni con Roma e di ciò che ha prodotto delle reazioni tra noi, come una delle conseguenze dolorose, la perdita di uno dei nostri vescovi… che non è cosa da poco! E qui tengo a precisare e a confermare che non è stato il problema delle nostre relazioni con Roma ad essere la causa di questa partenza. Questa è stata l’occasione, la conclusione di un problema che durava da tanto tanto tempo. Un problema di disciplina interna alla Fraternità. Che alla fine si è manifestato con una sorta di ribellione aperta contro l’autorità, diciamo con un falso pretesto».

Qui si parla di “confusione, mala erba, zizzania, disordine” e si dice che si tratta di un grande mistero. In verità, in tutto questo non v’è nulla di misterioso: il Consiglio generale era convinto che Roma fosse cambiata, anche se non totalmente, e quindi non c’era altro da fare, per il bene della Chiesa, che concludere un accordo. Altri, all’interno della Fraternità, erano convinti che a Roma non fosse cambiato alcunché, che le cose stessero esattamente come nel 1988, e che quindi non era possibile alcun accordo, se non al prezzo della distruzione della Fraternità. Si era parlato di questo per mesi e non v’era alcunché di misterioso, tranne gli elementi giustificativi noti solo al Consiglio generale e di cui non si aveva notizia alcuna.
Ciò nonostante, un elemento misterioso è davvero presente: “la perdita di uno dei nostri vescovi… che non è cosa da poco!” Perdita che, viene chiarito, è di fatto “una partenza”, la quale non avrebbe niente a che vedere con “il problema delle nostre relazioni con Roma”. Troppo sibillina, questa affermazione, tanto da costringerci a soffermarci.

«Mons. Richard Williamson, avendo preso da diversi anni le distanze dalla direzione e dal governo della Fraternità Sacerdotale San Pio X, e avendo rifiutato di manifestare il rispetto e l'ubbidienza dovuti ai suoi legittimi superiori, è stato dichiarato escluso dalla Fraternità Sacerdotale San Pio X, per decisione del Superiore generale e del suo Consiglio, il 4 ottobre 2012» (Comunicato della Casa Generalizia del 24 ottobre 2012).

Ebbene, in questo comunicato ufficiale non si parla né di perdita, né di partenza, si dice che, per decisione del Superiore e del suo Consiglio, Mons. Williamson “è stato dichiarato escluso”. Cioè?
Nessuno saprebbe spiegare il vero significato di questa espressione.
Certo, se ne potrebbe dedurre che Mons. Williamson si sia dimesso dalla Fraternità, ma non è così. Oppure che Mons. Williamson si rifiuti comunque di considerarsi parte della Fraternità, ma non è così. Oppure che Mons. Williamson sia passato a far parte di altro organismo diverso dalla Fraternità, ma non è così. Oppure che Mons. Williamson sia stato espulso della Fraternità, ma non è così. Oppure che Mons. Williamson sia stato riconosciuto colpevole di qualcosa che ipso facto, per Statuto, lo pone fuori dalla Fraternità, ma non è così.
Ma allora, come stanno le cose?
È inevitabile concludere che, com’è accaduto in questi ultimi mesi, le decisioni e i convincimenti del Consiglio generale, continuano ad essere avvolti dal mistero. Tale che le cose, invece di chiarirsi, finiscono col complicarsi.
Dal momento che contro Mons. Williamson non è mai stata aperta una qualche procedura canonica, le uniche giustificazioni sono quelle qui addotte: «avendo preso da diversi anni le distanze dalla direzione e dal governo della Fraternità Sacerdotale San Pio X, e avendo rifiutato di manifestare il rispetto e l'ubbidienza dovuti ai suoi legittimi superiori».

Questa premessa è così poco chiara che induce inevitabilmente a pensare ad una totale mancanza di rispetto per tutti i membri della Fraternità e per i fedeli laici. In un caso così grave, come l’allontanamento di un vescovo, il Consiglio generale avrebbe dovuto sentire il dovere di dire con chiarezza cosa fosse accaduto.

Cosa significa: «avendo preso da diversi anni le distanze dalla direzione e dal governo della Fraternità Sacerdotale San Pio X»?
Può solo significare che Mons. Williamson ha espresso il suo dissenso nei confronti della politica portata avanti dal Consiglio generale.
Ora, questo è vero e sono pure noti i  modi e i contenuti di tale dissenso, perché Mons. Williamson li ha sempre espressi pubblicamente e per iscritto. Ma così com’è vero, è anche legittimo, poiché nulla vieta ad un membro della Fraternità di dichiararsi in disaccordo con “la direzione e il governo” della stessa.
Da questo punto di vista, quindi, la premessa è infondata, poiché addebita una colpa inesistente.
Piuttosto, com’è possibile che il Consiglio generale non abbia tenuto nel debito conto il dissenso di uno dei quattro vescovi consacrati da Mons. Lefebvre? La risposta è contenuta nella lettera ai tre vescovi del 14 aprile, che abbiamo già esaminata: «Voi non potete sapere quanto in questi ultimi mesi la vostra attitudine – molto diversa per ciascuno di voi – sia stata dura per noi. Essa ha impedito al Superiore generale di comunicarvi e di farvi partecipi di queste grandi preoccupazioni, alle quali vi avrebbe molto volentieri associato, se non si fosse trovato davanti ad una incomprensione così forte e così passionale».
Il Consiglio generale, per principio, non tiene conto di tutto ciò che contrasta col proprio convincimento e non consulta tutti coloro che non sono d’accordo con lui. Cosa davvero sorprendente, poiché è chiaro anche ai bambini che l’autorità si esercita solo attraverso la prudenza e il consiglio, diversamente si scade nell’autoreferenzialità, che con l’autorità ha solo in comune l’“auto”.

Per di più, in una congregazione religiosa, la dignità di vescovo impone che l’esercizio del suo ministero venga svolto in piena autonomia anche rispetto ai Superiori, come si evince dal Codice di Diritto Canonico vigente (Can. 705) e dal Codice del 1917 (Can. 627) (si veda la breve nota riportata a parte), quindi il “prendere le distanze” rientra nelle prerogative e, per molti aspetti, nei doveri del vescovo. Così che la premessa è infondata anche dal punto di vista canonico.

La seconda parte di tale premessa: «avendo rifiutato di manifestare il rispetto e l'ubbidienza dovuti ai suoi legittimi superiori», ancorché indimostrata, per il mistero che continua ad avvolgere le decisioni del Consiglio generale, appare anche contraddittoria fino al punto di rivelarsi contraria al vero.

Mons. Williamson è stato rettore del seminario di Winona, negli Stati Uniti, fino al 2003, ed è evidente che la sua collocazione in quel seminario era del tutto coerente con il fatto che fosse di madrelingua inglese, come peraltro dimostra la sua designazione sul posto voluta da Mons. Lefebvre. Ciò nonostante, per motivi di opportunità noti solo al Consiglio generale e che quindi non possiamo prendere in esame, venne trasferito in Argentina, al seminario di La Reja. Non risulta che abbia disubbidito.

Nel 2009, dopo la remissione della scomunica e la nota speculazione orchestrata dai mezzi di comunicazione per screditare a loro modo la Fraternità, Mons. Williamson venne rimosso e consegnato agli “arresti domiciliari”, per così dire, a Wimbledon, Londra, dove è rimasto fino a poco dopo l’“esclusione”. Non risulta che abbia disubbidito.

In vista dello svolgimento del Capitolo, il 25 giugno, il Segretario generale diramò una lettera circolare ai Superiori, nella quale comunicava che «in virtù del Canone 2331 ¶ 1 e 2 (n.c. 1373), il Superiore generale ha privato dell’ufficio di capitolare Mons. Williamson, per le sue prese di posizione che chiamano alla ribellione e per la sua disobbedienza continuamente ripetuta. Gli ha anche vietato di recarsi ad Ecône per le ordinazioni». Non risulta che abbia disubbidito.

Piuttosto, a questo proposito, è necessario notare che il qui richiamato Can. 1373, recita testualmente: «Chi pubblicamente suscita rivalità e odi da parte dei sudditi contro la Sede Apostolica o l’Ordinario per un atto di potestà o di ministero ecclesiastico, oppure eccita i sudditi alla disobbedienza nei loro confronti, sia punito con l’interdetto o altre giuste pene». Ora, a parte l’aspetto ridicolo del richiamo a questo Canone da parte del Superiore di una Congregazione che, dal punto di vista canonico, sussiste quasi esclusivamente sulla base di esso, non v’è dubbio che questo non è applicabile al caso in specie, sia perché la Fraternità non ha un “Ordinario”, né è la Sede Apostolica, sia perché un vescovo non rientra tra i “chi” citati dal Canone, anzi ne è escluso ed è chiaramente tutelato in questo senso dal Canone 705 che abbiamo citato prima.
E questo elemento controverso, e per molti versi arbitrario, è stato confermato dal fatto che il 9 luglio, prima dell’apertura dei lavori del Capitolo, i presenti sono stati chiamati a “confermare” questa decisione del Superiore generale. Una procedura quanto meno insolita, quella di chiedere ad un consesso incompetente, e a posteriori, di confermare una decisione dell’autorità, da questa stessa ritenuta legittima e già applicata.

Un pasticcio.
Per di più aggravato dal fatto che, trattandosi di uno dei quattro vescovi, ed essendosi prodotto il risultato di 29 voti a favore e di 9 contro, la prudenza e il consiglio di un Superiore che non fosse preoccupato solo di se stesso, avrebbe dovuto portare alla sospensione dello svolgimento del Capitolo stesso, mentre invece tutto si è svolto come se niente fosse, come se l’esclusione di uno dei vescovi equivalesse a decidere se il Capitolo avesse dovuto aprirsi alle 9 piuttosto che alle 8.

Davvero un pasticcio e una leggerezza, che recitano a carico di una gestione un po’ farfallona della Fraternità San Pio X.
E diciamo farfallona, per non dire di più, dal momento che in questa stessa circolare si comunica un’altra decisione del Superiore generale, il quale: «ha deciso di differire le ordinazioni dei religiosi Domenicani di Avrillé e Cappuccini di Morgon, previste per il prossimo 29 giugno a Ecône. Questo procrastinare le ordinazioni gli è stato semplicemente dettato dalla preoccupazione di assicurarsi della lealtà di queste comunità, prima d’imporre le mani sui loro candidati».

Una decisione che, più che perplessità, ha destato sconcerto, sia perché incredibilmente assunta cinque giorni prima delle ordinazioni, sia perché, ancora una volta, non si capisce quale grave motivo abbia potuto indurre il Superiore generale a “differire” ciò che la Fraternità aveva fatto da tanti anni. Solo il disaccordo con la politica del Consiglio generale ha potuto motivare una decisione come questa, che di fatto ha subordinato l’ordinazione di nuovi sacerdoti cattolici, e quindi uno degli elementi che compongono la ragion d’essere della Fraternità, alla “sottomissione” ai convincimenti del Consiglio generale. Ancora un pasticcio, dove si è finito col confondere un’opinione del Consiglio generale, con lo scopo della Fraternità; una visione di parte con la visione generale.
Tanto più che queste stesse comunità sono divenute improvvisamente e miracolosamente “leali”, l’11 ottobre successivo, quando a Bellaigue, Francia, hanno potuto godere dell’ordinazione dei loro candidati.
Evidentemente, la decisione del 25 giugno era solo un gesto clamoroso per affermare pubblicamente l’autorità indiscutibile del Superiore generale: un chiarissimo gesto che, pur volendo essere di forza, ha rivelato un’incredibile debolezza.

Per tornare alla disubbidienza di Mons. Williamson, l’unica che sembrerebbe possibile addebitargli è il rifiuto di sospendere le sue lettere settimanali “Commenti Eleison”.
Richiesta avanzata dal Consiglio generale in maniera del tutto illegittima, poiché non si può imporre d’autorità anche il come si debba esercitare il ministero episcopale.

A onor del vero, si è anche “detto” che con queste sue lettere settimanali egli arrecasse danno alla Fraternità. Ma di questo non v’è nulla di ufficiale, né mai è stato iniziato un processo canonico nei suoi confronti per motivi del genere.
Si potrebbe dire che a norma di Diritto Canonico l’unico foro competente per un vescovo è quello di Roma, quindi il Consiglio generale non avrebbe potuto iniziare alcun procedimento canonico, ma questo conferma solo che il Consiglio generale non aveva neanche il potere di “dichiarare escluso” il vescovo. L’unico potere che aveva e che ha è quello di ingiungere ai responsabili delle sue case, di non ospitare più Mons. Williamson, costringendolo di fatto a vivere a casa sua. Ma questo non si chiama “esclusione”, si chiama semplicemente sfratto, cioè esercizio del potere del padrone di affittare a chi vuole e come vuole la sua casa.

In effetti, il Consiglio generale non poteva e non ha potuto “escludere” Mons. Williamson dalla Fraternità, non avendo il potere di affermare che egli, per decisione del Consiglio generale, abbia smesso di essere un vescovo della Fraternità San Pio X.

Tutta la vicenda, insomma, non potendo in alcun modo rivestire un carattere “disciplinare”, come erroneamente è stato detto da alcuni, si riduce ad una controversa decisione unilaterale del Consiglio generale, certo dettata dalla riconosciuta irriducibilità del vescovo a piegarsi ai suoi  momentanei e problematici convincimenti.
In questa omelia dell’11 novembre, il Superiore generale spiega:

«Cos’è successo in tutti questi mesi? Dove si trova la causa di tutti questi trambusti! Penso che essa è molteplice, ma la base, la base è una contraddizione a Roma. Contraddizione che avevamo constatato, che avevamo già spiegata fin da almeno il 2009. Contraddizione che, direttamente per noi, si manifesta nelle decisioni, nelle dichiarazioni della stessa autorità, cioè della Santa Sede, ma che vengono da persone diverse della Santa Sede, e sono dichiarazioni diverse, opposte e anche contraddittorie. […] Da cui una difficoltà che esiste già da diversi mesi, da diversi anni, circa il comprendere cosa voglia veramente il capo, cioè il Santo Padre, il Sommo Pontefice. In linea di principio, ciò che si chiama la Santa Sede, il Vaticano, è nelle sue mani. Non si fa distinzione tra la Santa Sede e il Papa». 
E continua spiegando nel dettaglio in cosa sia consistita questa contraddizione, fino a ricordare la famosa lettera del Papa del 30 giugno, in cui questi chiede alla Fraternità di “accettare che il magistero è il giudice della Tradizione apostolica”, che “il Concilio fa parte integrante di questa Tradizione” e che la nuova Messa, non solo è valida, ma anche lecita.
E conclude:
«Ecco, miei cari fratelli, la situazione. Ed ecco perché è evidente che dal mese di giugno – l’abbiamo annunciato alle ordinazioni – le cose sono bloccate. È un ritorno al punto di partenza. Noi ci troviamo esattamente allo stesso punto di Mons. Lefebvre negli anni 1975, 1974. E dunque la nostra battaglia continua».

Insomma, l’11 novembre, il Superiore generale, smentendo tutto quanto affermato nei mesi precedenti, dichiara che le cose sono ferme al 1974-75, nemmeno al 1988, volendo dimostrare con questo che egli è più drastico e più duro di tutti.
Ora, pur tralasciando le voci che riferiscono che il Superiore generale avrebbe dichiarato di essere stato ingannato, è evidente che in questa omelia il Superiore generale si lascia andare in una requisitoria contro il Superiore generale: cosa ben possibile se non si scontrasse con l’assurdo che si tratta della stessa persona.

Ebbene. Nella lettera di risposta ai vescovi, del 14 aprile, il Consiglio generale, mentre rimproverava ai tre vescovi che la loro descrizione dello stato delle cose fosse «macchiata da due difetti relativi alla realtà della Chiesa; manca del soprannaturale e nel contempo di realismo», ricordava decisamente «Questa situazione concreta, con la soluzione canonica proposta, è molto diversa da quella del 1988. E quando paragoniamo gli argomenti offerti all’epoca da Mons. Lefebvre, ne concludiamo che egli non avrebbe esitato ad accettare ciò che ci viene proposto. Non perdiamo il senso della Chiesa, che era così forte nel nostro venerato fondatore».

Il 14 aprile tutto era diverso dal 1988, e la cosa più saggia era fare l’accordo, l’11 novembre tutto è al punto del 1974-75, così che nessun accordo è possibile.

Cos’è accaduto nel frattempo? Nulla, assolutamente nulla.

Quindi se ne deduce che in aprile il Consiglio generale si sbagliasse clamorosamente.
Perché?
Si dice a causa della contraddizione a Roma.
Ma se il Consiglio generale avesse conosciuto Roma e la Curia romana solo da poco, la scusa potrebbe essere giustificata, invece conosce Roma e la Curia romana da 40 anni e l’essersi lasciato fuorviare dalla “contraddizione” romana può significare solo due cose: o il Consiglio generale non era in grado di giudicare in coerenza con le sue responsabilità o aveva, in cuor suo, caldeggiato una soluzione, qualunque essa fosse, pur di mettere fine alla irregolarità canonica… costi quel che costi.
Nell’un caso o nell’altro, non si può parlare più di errore di valutazione, ma di gravissima colpevole responsabilità.

Ci si chiede: era davvero necessario condurre la Fraternità fino all’orlo del collasso, espellere tanti sacerdoti, rimproverare i vescovi, bisticciare con tante “comunità amiche”, bacchettare tanti fedeli, “escludere” un vescovo, per poi concludere che tutti questi avevano ragione e l’unico ad avere torto era proprio il Consiglio generale? Qualcosa non torna!

Certo, si potrebbe obiettare che il problema della disubbidienza rimane, almeno per alcuni, ma non ci si può appellare alla virtù dell’obbedienza quando questa contrasta, non solo con la verità, ma perfino col buon senso… come dimostrano i fatti.

E quest’omelia si conclude in modo appropriato, ma enormemente sorprendente:
«E noi sappiamo bene che la soluzione verrà dal Buon Dio e si può anche dire per mezzo della Santa Vergine. Lo si può dire, è un’evidenza dei nostri tempi, significata da queste apparizioni, belle, magnifiche: la Madonna de La Salette, la Madonna di Fatima, che annunciano quest’epoca, dolorosa, terribile. Roma diventerà la sede dell’Anticristo, Roma perderà la fede… è questo che è stato detto a La Salette. La Chiesa sarà eclissata. Queste non sono parole da poco. Si ha veramente l’impressione che è oggi che si vede tutto questo. Non bisogna agitarsi. È terrificante, certo, e allora bisogna ancor più rifugiarsi presso la Santa Vergine, presso il Suo Cuore Immacolato. È il messaggio di Fatima: Dio vuole dare al mondo questa devozione al Cuore Immacolato di Maria. E questo non è per niente! Chiediamo in tutte le nostre preghiere, in ogni Messa, questa grazia della fedeltà, di non cedere in niente, costi quel che costi. E che il Buon Dio ci protegga e ci guidi, fino in Cielo».

Appropriato perché la situazione in cui versa la Chiesa conciliare è esattamente quella descritta, quella stessa che la Fraternità denuncia da 40 anni.

Sorprendente perché queste parole sembrano uscire dalla bocca di chi in questi due ultimi anni ha fortemente contrastato la politica dell’accordo portata avanti dal Consiglio generale, e per questo si ritrova ad essere annoverato come tra i nemici della Fraternità, mentre oggi si dimostra che, se di nemici si può parlare, questi sono proprio quelli che, avendo voluto ignorare i richiami e i rimproveri dei vescovi, dei sacerdoti, delle comunità amiche e dei fedeli, hanno portato la Fraternità alla divisione e oggi si cospargono il capo di cenere con la scusa di essersi ingannati.

Qui è detto: «Chiediamo in tutte le nostre preghiere, in ogni Messa, questa grazia della fedeltà, di non cedere in niente, costi quel che costi ».

Se queste parole fossero state pronunciate due anni, un anno, sei mesi fa, non ci sarebbero stati i trambusti e le prove di cui qui si parla, e la Fraternità sarebbe oggi ancor più compatta e forte di prima, invece di ritrovarsi nella incresciosa situazione di dover sanare le profonde laceranti ferite riportate per colpa di una politica unilaterale e sconsiderata.


Il Consiglio generale, in coerenza con queste parole, provvederà a richiamare tutti quelli che ha allontanato, riconoscendo che erano loro ad avere ragione ed esso ad avere torto?


Lo abbiamo detto prima: tutto è bene quel che finisce bene.

Soprattutto perché, con nostra soddisfazione, che è quella che poi conta davvero molto poco, adesso possiamo dire che la ragion d’essere della Fraternità non è cambiata.
A fronte della disastrosa situazione in cui si trova oggi la Chiesa cattolica per colpa dei nuovi preti e dei nuovi vescovi, dei moderni cardinali e papi, tutti votati a trasformarla in Chiesa conciliare e protestante… la Fraternità assolve il suo compito di testimonianza, seguendo gli insegnamenti del Signore Gesù,… costi quel che costi!

E questo induce ad un’importante riflessione.
Se negli ultimi tre anni la Fraternità ha conosciuto scossoni e trambusti, se negli ultimi due anni ha sperimentato prove pesanti e dubbi atroci, se nell’ultimo anno ha corso il rischio di esplodere, con tanti pezzi lasciati per strada, la responsabilità, per quanto riguarda la Fraternità stessa, è dell’attuale direzione… soprattutto per aver dimostrato di avere la disposizione a lasciarsi ingannare dal nemico.
Può la stessa direzione portare avanti una battaglia che appena ieri era convinta di poter condurre in modo opposto?
Possono questi stessi responsabili agire in coerenza. quando per anni si sono esercitati a convincersi e a convincere del contrario?

Soprattutto, è possibile esercitare l’autorità dopo aver dimostrato di avere sbagliato l’analisi e di avere mirato al contrario di quanto fosse necessario?

È possibile seguire una politica interna con gli stessi metodi usati fino ad ora?


Nella Dichiarazione del Capitolo del 14 luglio è detto: «Abbiamo definito ed approvato delle condizioni necessarie per una eventuale regolarizzazione canonica. Si è stabilito che, in questo caso, sarà convocato prima un Capitolo straordinario deliberativo».

E Mons. de Galarreta ha spiegato: «E in questo Capitolo è stato anche deciso che mai la Casa generalizia potrà pervenire a qualcosa di valido e di interessante con queste condizioni, vi sarà un Capitolo deliberativo, il che significa che la sua decisione vincolerà necessariamente (i membri della Fraternità). Quando vi è un Capitolo consultivo, si chiede consiglio, e dopo l’autorità decide liberamente. Un Capitolo deliberativo significa che la decisione presa dalla maggioranza assoluta – la metà più uno, cosa che ci è sembrata ragionevole – tale decisione sarà seguita dalla Fraternità» (Conferenza a Villepreux del 13 ottobre 2012).

Da qui si deducono due cose.
La prima, che l’ultima decisione del Capitolo contempla la possibilità di un accordo sulla base delle condizioni poste dal Capitolo stesso. Ora, questa decisione sembra essere superata dall’omelia dell’11 novembre, e tuttavia essa è là a far da testo di riferimento, così che non meraviglierebbe se la primaria intenzione di giungere ad un accordo, facesse passare in secondo piano quest’ultima decisione “di non cedere in niente, costi quel che costi”.
Tutta questa nostra disamina ha ricordato una serie di dichiarazioni contraddittorie.

La seconda, che in ogni caso verrà convocato un apposito Capitolo deliberativo che deciderà a maggioranza semplice: la metà più uno. Ora, il Capitolo è composto essenzialmente dai Superiori e dai vescovi, e non è peregrino, né specioso, ricordare che i Superiori sono nominati dal Consiglio generale, mentre per i vescovi, come si è visto, possono essere esclusi dal parteciparvi su semplice disposizione del Superiore.
Sembra quindi poco significativa questa cautela teorica dell’ultimo Capitolo. Almeno fino a quando non cambierà la politica interna dell’attuale direzione. Cosa che, ci sembra logico, può verificarsi solo se cambierà la direzione stessa.

Per concludere, possiamo dire che se, grazie a Dio, la ragion d’essere della Fraternità non è cambiata, di certo questa è stata guidata in maniera improvvida e inadeguata, fino al punto che tale ragion d’essere potesse cambiare e con essa potesse svanire la stessa Fraternità.

Come abbiamo detto all’inizio, chi scrive non è membro della Fraternità, che è una congregazione prettamente religiosa, ma un semplice fedele cattolico che, grazie a Dio, gode da anni del ministero dei vescovi e dei sacerdoti della Fraternità, quindi non spetta a noi avanzare richieste o raccomandazioni, e tuttavia ci sembra onesto ed equilibrato offrire dei consigli, proprio alla luce del buon senso del semplice fedele, che, tra l’altro, gode anch’egli della propria grazia di stato.

Per rispondere agevolmente alle domande che ci siamo posti prima, la cosa più logica ci sembra che la Fraternità cambi il proprio organo direttivo, magari per lodevole iniziativa dei suoi stessi componenti, in modo da ripartire per la nuova battaglia, lasciandosi alle spalle tutte le contraddizioni e tutti i dubbi che l’hanno afflitta in questi ultimi anni.

Che il Signore illumini i dirigenti della Fraternità e continui a preservarla dagli errori degli uomini, sempre più drammaticamente possibili in questo nostro mondo così fuorviato e fuorviante.



 NOTE

CIC 1983, can. 705.  
Religiosus ad episcopatum evectus instituti sui sodalis remanet, sed vi voti oboedientiae uni Romano Pontifici obnoxius est, et obligationibus non adstringitur, quas ipse prudenter iudicet cum sua condicione componi non posse.

Il religioso elevato all’episcopato continua ad essere membro del suo istituto, ma in forza del voto di obbedienza è soggetto solamente al Romano Pontefice e non è vincolato da quegli obblighi che, nella sua prudenza, egli stesso giudichi incompatibili con la propria condizione.

CIC 1917, can. 627.
§ 1. Religiosus, renuntiatus Cardinalis aut Episcopus sive residentialis sive titularis, manet religiosus, particeps privilegiorum suae religionis, votis ceterisque suae professionis obligationibus adstrictus, exceptis iis quas cum sua dignitate ipse prudenter iudicet componi non posse, salvo praescripto can. 628.
§ 2. Eximitur tamen a potestate Superiorum et, vi voti obedientiae, uni Romano Pontifici manet obnoxius.
§ 1. Il religioso, eletto Cardinale o Vescovo, residenziale o titolare, rimane religioso, partecipa dei privilegi della sua religione, è soggetto ai voti e a tutte le altre obbligazioni della sua professione, eccetto quelle che, in base alla sua prudenza, egli stimi come non compatibili con la sua dignità, salvo quanto prescritto dal Can. 628. [il Can. 628 tratta solo il diritto dei beni materiali].
§ 2. Egli è esente comunque dalla potestà dei suoi Superiori e, in forza del suo voto d’obbedienza, rimane sottomesso solo al Romano Pontefice.

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