Nostro Signore Gesù Cristo Re dell'universo; Maria Valtorta, L'Evangelo come mi è stato rivelato, X, cap. 604
Gesù
entra nel Pretorio in mezzo ai dieci soldati, che fanno un quadrato di
alabarde intorno alla sua persona. I due centurioni vanno avanti. Mentre
Gesù sosta in un largo atrio, oltre il quale è un cortile che si
intravede dietro una tenda che il vento sommuove, essi scompaiono dietro
una porta. Rientrano col Governatore, vestito di una toga bianchissima
sulla quale però è un manto scarlatto. Forse così erano quando
rappresentavano ufficialmente Roma. Entra indolentemente, con un
sorrisetto scettico sul volto sbarbato, stropiccia fra le mani delle
fronde di erba cedrina e le fiuta con voluttà. Va ad una meridiana, si
rivolge dopo averla guardata. Getta dei grani d’incenso nel braciere
posto ai piedi di un nume. Si fa portare acqua cedrata e si gargarizza
la gola. Si rimira la pettinatura tutta a onde in uno specchio di
metallo tersissimo. Pare che abbia dimenticato il Condannato che aspetta
la sua approvazione per essere ucciso. Farebbe venire l’ira anche alle
pietre.
Gli
ebrei, posto che l’atrio è tutto aperto sul davanti e sopraelevato di
tre alti scalini anche sul vestibolo, che si apre sulla via già
sopraelevato di altri tre sulla via stessa, vedono tutto benissimo e
fremono. Ma non osano ribellarsi per paura delle aste e dei giavellotti.
Finalmente, dopo avere girato e rigirato per l’ampio luogo, Pilato va diritto incontro a Gesù, lo guarda a chiede ai due centurioni:
Finalmente, dopo avere girato e rigirato per l’ampio luogo, Pilato va diritto incontro a Gesù, lo guarda a chiede ai due centurioni:
«Questo?».
«Questo».
«Vengano i suoi accusatori», a va a sedersi sulla sedia posta sulla predella.
Sul suo capo le insegne di Roma si incrociano con le loro aquile dorate e la loro sigla potente.
«Non possono venire. Si contaminano».
«Euè!!!
Meglio. Eviteremo fiumi d’essenze per levare il caprino al luogo.
Fateli avvicinare, almeno. Qui sotto. E badate non entrino, posto che
non vogliono farlo. Può essere un pretesto, quest’uomo, per una
sedizione».
Un
soldato parte per portare l’ordine del Procuratore romano. Gli altri si
schierano sul davanti dell’atrio a distanze regolari, belli come nove
statue di eroi.
Vengono
avanti i capi dei sacerdoti, scribi e anziani, e salutano con servili
inchini e si fermano sulla piazzetta che è al davanti del Pretorio,
oltre i tre gradini del vestibolo.
«Parlate
e siate brevi. Già in colpa siete per avere turbato la notte e ottenuto
l’apertura delle porte con violenza. Ma verificherò. E mandanti e
mandatari risponderanno della disubbidienza al decreto».
Pilato è andato verso di loro, rimanendo nel vestibolo.
«Noi veniamo a sottoporre a Roma, di cui tu rappresenti il divino Imperatore, il nostro giudizio su Costui».
«Quale accusa portate contro di Lui? Mi sembra un innocuo...».
«Se non fosse malfattore non te Lo avremmo portato». E nella smania di accusare si fanno avanti.
«Respingete questa plebe! Sei passi oltre i tre scalini della piazza. Le due centurie all’armi!».
I
soldati ubbidiscono veloci, allineandosi cento sul gradino esterno più
alto, con le spalle volte al vestibolo, e cento sulla piazzetta su cui
si apre il portone d’ingresso alla dimora di Pilato. Ho detto portone:
dovrei dire androne o arco trionfale, perché è una vastissima apertura
limitata da un cancello, ora spalancato, che immette nell’atrio per il
lungo corridoio del vestibolo largo almeno sei metri, di modo che ben si
vede ciò che avviene nell’atrio sopraelevato. Oltre l’ampio vestibolo
si vedono le facce bestiali dei giudei guardare minacciose e sataniche
verso l’interno, guardare dall’al di là della barriera armata che,
gomito a gomito, come per una parata, presenta duecento punte ai conigli
assassini.
«Quale accusa portate verso Costui, ripeto».
«Ha commesso delitto contro la Legge dei padri».
«E venite a seccare me per questo? Pigliatelo voi e giudicatelo secondo le vostre leggi».
«Noi
non possiamo dar morte ad alcuno. Dotti non siamo. Il Diritto ebraico è
un pargolo deficiente rispetto al perfetto Diritto di Roma. Come
ignoranti e come soggetti di Roma, maestra, abbiamo bisogno...».
«Da quando siete miele e burro?... Ma
avete detto una verità, o maestri del mendacio! Di Roma avete bisogno!
Sì. Per sbarazzarvi di Costui che vi dà noia. Ho compreso».
E
Pilato ride, guardando il cielo sereno che si inquadra come una
rettangolare lastra di cupa turchese fra le marmoree e candide pareti
dell’atrio.
«Dite: in che ha commesso delitto contro le vostre leggi?».
«Noi abbiamo trovato che Costui metteva il disordine nella nostra nazione e che impediva di pagare il tributo a Cesare, dicendosi il Cristo, re dei giudei».
Pilato
ritorna presso Gesù, che è al centro dell’atrio, lasciato là dai
soldati, legato ma senza scorta tanto appare netta la sua mansuetudine. E
gli chiede:
«Sei Tu il re dei giudei?».
«Per te lo chiedi o per insinuazione d’altri?».
«E
che vuoi che me ne importi del tuo regno? Son forse io giudeo? La tua
nazione e i capi di essa mi Ti hanno consegnato perché io giudichi. Che
hai fatto? Ti so leale. Parla. È vero che aspiri al regno?».
«Il mio Regno non viene da questo mondo. Se fosse un regno del mondo, i miei ministri e i miei soldati avrebbero combattuto perché i giudei non mi pigliassero. Ma il mio Regno non è della terra. E tu lo sai che al potere Io non tendo».
«Il mio Regno non viene da questo mondo. Se fosse un regno del mondo, i miei ministri e i miei soldati avrebbero combattuto perché i giudei non mi pigliassero. Ma il mio Regno non è della terra. E tu lo sai che al potere Io non tendo».
«Ciò è vero. Lo so. Mi fu detto. Ma però Tu non neghi d’essere re?».
«Tu lo dici. Io sono Re. Per questo sono venuto al mondo: per rendere testimonianza alla Verità. Chi è amico della Verità ascolta la mia voce».
«E che cosa è la Verità ? Sei filosofo? Non serve di fronte alla morte. Socrate morì lo stesso».
«Ma
gli servì di fronte alla vita, a ben vivere. E anche a ben morire. E ad
andare nella vita seconda senza nome di traditore delle civiche virtù».
«Per Giove!».
Pilato
lo guarda ammirato qualche momento. Poi lo riprende il sarcasmo
scettico. Fa un atto di noia, gli volge le spalle, torna verso i giudei.
«Io non trovo in Lui alcuna colpa».
La folla tumultua, presa dal panico di perdere la preda e lo spettacolo del supplizio. E urla:
«È
un ribelle!», «Un bestemmiatore», «Incoraggia il libertinaggio»,
«Eccita alla ribellione», «Nega rispetto a Cesare», «Si finge profeta
senza esserlo», «Compie magie», «È un satana», «Solleva il popolo con le
sue dottrine insegnando in tutta la Giudea , alla quale è venuto dalla
Galilea insegnando», «A morte!», «A morte!». «Galileo è? Galileo sei?».
Pilato torna da Gesù: «Lo senti come ti accusano? Discolpati».
Ma Gesù tace.
Pilato pensa... E decide.
«Una
centuria, e da Erode Costui. Lo giudichi. È suo suddito. Riconosco il
diritto del Tetrarca e al suo verdetto sottoscrivo in anticipo. Gli sia
detto. Andate».
E
Gesù, inquadrato come un manigoldo da cento soldati, riattraversa la
città e torna ad incontrare Giuda Iscariota, che già aveva incontrato
una volta presso un mercato. Prima mi ero dimenticata di dirlo, presa
dal disgusto della zuffa popolana. Lo stesso sguardo di pietà sul
traditore...
Ora
è più difficile colpirlo con calci e bastoni, ma le pietre e le
immondezze non mancano e, se i sassi cadono sonando senza ferire sugli
elmi e le corazze romane, ben lasciano un segno colpendo Gesù, che procede col solo vestito, avendo lasciato il mantello nel Getsemani. Nell’entrare nel fastoso palazzo di Erode, Egli vede Cusa... che non sa guardarlo e che fugge per non vederlo in quello stato, coprendosi il capo col mantello.
Eccolo
nella sala, davanti a Erode. E, dietro Lui, ecco gli scribi e i
farisei, che qui si sentono a loro agio, entrare da accusatori mendaci.
Solo il centurione con quattro militi lo scortano davanti al Tetrarca.
Questo scende dal suo seggio e gira intorno a Gesù, mentre ascolta le
accuse dei nemici suoi. E sorride e beffeggia. Poi finge una pietà e un
rispetto che non turbano il Martire come non Lo hanno turbato i
motteggi.
«Sei
grande. Lo so. Ti ho seguito e ho avuto giubilo che Cusa ti fosse amico
e Manaem discepolo. Io... le cure di Stato... Ma che desiderio di
dirti: grande... di chiederti perdono... L’occhio di Giovanni... la sua
voce mi accusano e sempre davanti a me sono. Tu sei il Santo che annulla
i peccati del mondo. Assolvimi, o Cristo».
Gesù tace.
«Ho sentito che Ti accusano di esserti drizzato contro Roma. Ma non sei Tu la verga promessa per percuotere Assur?».
Gesù tace.
«Mi
hanno detto che Tu profetizzi la fine del Tempio e di Gerusalemme. Ma
non è eterno il Tempio come spirito, essendo voluto da Chi eterno è?».
Gesù tace.
«Sei folle? Hai perduto il potere? Satana ti inceppa la parola? Ti ha abbandonato?». Erode ride, ora.
Ma
poi dà un ordine. E dei servi accorrono portando un levriero dalla
gamba spezzata, che guaisce lamentosamente, e uno stalliere ebete dalla
testa acquosa, sbavante, un aborto d’uomo, trastullo dei servi. Gli
scribi e i sacerdoti fuggono urlando al sacrilegio, quando vedono la
barella del cane. Erode, falso e beffardo, spiega:
«È il preferito di Erodiade. Dono di Roma. Si è spezzato ieri una zampa ed ella piange. Comanda che guarisca. Fa un miracolo».
Gesù lo guarda severo. E tace.
«Ti
ho offeso? Allora questo. È un uomo, benché di poco sia più che una
belva. Dagli l’intelligenza, Tu, Intelligenza del Padre... Non dici
così?».
E ride, offensivo. Altro più severo sguardo di Gesù e silenzio.
«Quest’Uomo è troppo astinente e ora è intontito dagli spregi. Vino e donne, qui. E sia slegato».
Lo
slegano. E mentre servi, in gran numero, portano anfore e coppe,
entrano danzatrici... coperte di niente: una frangia multicolore di lino
cinge per unica veste la loro sottile persona, dalla cintura alle
anche. Null’altro. Bronzee perché africane, snelle come gazzelle
giovinette, iniziano una danza silenziosa e lasciva.
Gesù respinge le coppe e chiude gli occhi senza parlare. La corte di Erode ride davanti al suo sdegno.
«Prendi quella che vuoi. Vivi! Impara a vivere!...», insinua Erode.
Gesù
pare una statua. A braccia conserte, occhi serrati, non si scuote
neppure quando le impudiche danzatrici Lo sfiorano coi loro corpi nudi.
«Basta.
Ti ho trattato da Dio e non hai agito da Dio. Ti ho trattato da uomo e
non hai agito da uomo. Sei folle. Una veste bianca. Rivestitelo di essa
perché Ponzio Pilato sappia che il Tetrarca ha giudicato folle il suo
suddito. Centurione, dirai al Proconsole che Erode gli umilia il suo
rispetto e venera Roma. Andate».
E
Gesù, legato di nuovo, esce, con una tunica di lino, che gli giunge al
ginocchio, sopra la rossa veste di lana. E tornano da Pilato.
Ora,
quando la centuria fende a fatica la folla, che non si è stancata di
attendere davanti al palazzo proconsolare ‑ed è strano vedere tanta
folla in quel luogo e nelle vicinanze, mentre il resto della città
appare vuoto di popolo‑ Gesù
vede in gruppo i pastori, e sono al completo, ossia Isacco, Gionata,
Levi, Giuseppe, Elia, Mattia, Giovanni, Simeone, Beniamino e Daniele,
insieme ad un gruppetto di galilei di cui riconosco Alfeo e Giuseppe di
Alfeo, insieme a due altri che non conosco ma che direi giudei dalla
acconciatura. E
più oltre, scivolato fin dentro al vestibolo, seminascosto dietro una
colonna, insieme ad un romano che direi un servo, vede Giovanni. Sorride
a questo e a quelli... I suoi amici... Ma che sono questi pochi, e
Giovanna e Manaem e Cusa, in mezzo ad un oceano di odio che bolle?...
Il centurione saluta Ponzio Pilato e riferisce.
«Qui ancora?! Auf! Maledetta questa razza! Fate avanzare la plebaglia e portate qui l’Accusato. Euè! che noia!».
Va verso la folla, sempre fermandosi a metà vestibolo.
«Ebrei,
udite. Mi avete condotto quest’Uomo come sobillatore del popolo.
Davanti a voi L’ho esaminato e non ho trovato in Lui nessuno dei delitti
di cui Lo accusate. Erode non più di me ha trovato. E a noi Lo ha
rimandato. Non merita la morte. Roma ha parlato. Però, per non
dispiacervi levandovi il sollazzo, vi darò in cambio Barabba. E Lui lo
farò colpire con quaranta colpi di fustigazione. Basta così».
«No, no! Non Barabba! Non Barabba! A Gesù la morte! E morte orrenda! Libera Barabba e condanna il Nazzareno».
«Ma
udite! Ho detto fustigazione. Non basta? Lo farò flagellare, allora! È
atroce, sapete? Può morire per essa. Che ha fatto di male? Io non trovo
nessuna colpa in Lui. E lo libererò».
«Crocifiggi! Crocifiggi! A morte! Protettore dei delinquenti sei! Pagano! Satana tu pure!».
La
folla si fa sotto e la prima schiera di soldati ondeggia nell’urto, non
potendo usare le aste. Ma la seconda fila, scendendo d’un gradino,
rotea le aste e libera i compagni.
«Sia flagellato», ordina Pilato a un centurione.
«Quanto?».
«Quanto ti pare... Tanto è affare finito. E io sono annoiato. Va’».
Gesù
viene tradotto da quattro soldati nel cortile oltre l’atrio. In esso,
tutto selciato di marmi colorati, è al centro un’alta colonna simile a
quella del porticato. A un tre metri dal suolo essa ha un braccio di
ferro sporgente per almeno un metro e terminante in anello. A questa
viene legato Gesù con le mani congiunte sull’alto del capo, dopo che fu
fatto spogliare. Egli resta unicamente con delle piccole brache di lino e
i sandali. Le mani legate ai polsi vengono alzate sino all’anello, di
modo che Egli, per quanto sia alto, non poggia al suolo che la punta dei
piedi... E deve essere tortura anche questa posizione. Ho letto non so
dove che la colonna era bassa e Gesù stava curvo. Sarà. Io vedo così e
così dico.
Dietro
a Lui si colloca uno dalla faccia di boia, dal netto profilo ebraico;
davanti a Lui, un altro dalla faccia uguale. Sono armati del flagello,
fatto di sette strisce di cuoio legate ad un manico a terminanti in un
martelletto di piombo. Ritmicamente, come per un esercizio, si danno a
colpire. Uno davanti, l’altro di dietro, di modo che il tronco di Gesù è
in una ruota di sferze e di flagelli.
I
quattro soldati a cui è consegnato, indifferenti, si sono messi a
giocare a dadi con altri tre soldati sopraggiunti. E le voci dei
giocatori si cadenzano sul suono dei flagelli, che fischiano come serpi e
poi suonano come sassi gettati sulla pelle tesa di un tamburo,
percuotendo il povero corpo così snello e di un bianco d’avorio vecchio,
e che diviene prima zebrato di un rosa sempre più vivo, poi viola, poi
si orna di rilievi d’indaco gonfi di sangue, e poi si crepa e rompe
lasciando colare sangue da ogni parte. E infieriscono specie sul torace e
l’addome, ma non mancano i colpi dati alle gambe e alle braccia e fin
sul capo, perché non vi fosse brano di pelle senza dolore.
E
non un lamento... Se non fosse sostenuto dalla fune, cadrebbe. Ma non
cade e non geme. Solo la testa gli pende, dopo colpi e colpi ricevuti,
sul petto, come per svenimento.
«Ohé! Fermati! Deve essere ucciso da vivo», urla e motteggia un soldato.
I due boia si fermano e si asciugano il sudore.
«Siamo sfiniti», dicono. «Dateci la paga, che si possa bere per ristorarsi...».
«La forca vi darei! Ma prendete...», e un decurione getta una larga moneta ad ognuno dei due boia.
«Avete
lavorato a dovere. Pare un mosaico. Tito, dici che era proprio questo
l’amore di Alessandro? Allora gliene daremo notizia perché faccia il
lutto. Sleghiamolo un poco».
Lo
slegano e Gesù si accascia al suolo come morto. Lo lasciano là,
urtandolo ogni tanto col piede calzato dalle calighe per vedere se geme.
Ma Egli tace.
«Che sia morto? Possibile? È giovane e artiere, mi hanno detto... e pare una dama delicata».
«Ora
ci penso io», dice un soldato. E Lo mette seduto con la schiena alla
colonna. Dove Egli era, sono grumi di sangue... Poi va ad una fontanella
che chioccola sotto al portico, empie un mastello d’acqua e la rovescia
sul capo e sul corpo di Gesù.
«Così! Ai fiori fa bene l’acqua».
Gesù sospira profondamente e fa per alzarsi, ma ancora sta ad occhi chiusi.
«Oh! bene. Su, bellino! Che ti aspetta la dama!...».
Ma Gesù inutilmente punta al suolo i pugni nel tentativo di drizzarsi.
«Su!
Svelto! Sei debole? Ecco il ristoro», ghigna un altro soldato. E con
l’asta della sua alabarda mena una bastonata al viso e coglie Gesù fra
lo zigomo destro e il naso, che si mette a sanguinare.
Gesù
apre gli occhi, li gira. Uno sguardo velato... Fissa il soldato
percuotitore, si asciuga il sangue con la mano, e poi, con molto sforzo,
si pone in piedi.
«Vestiti. Non è decenza stare così. Impudico!».
Ridono
tutti in cerchio intorno a Lui. Egli ubbidisce senza parlare. Ma mentre
si china ‑e solo Lui sa quello che soffre nel piegarsi al suolo, così
contuso come è, e con le piaghe che nel tendersi della pelle si aprono
più ancora, e altre che se ne formano per vesciche che si rompono- un
soldato dà un calcio alle vesti e le sparpaglia e, ogni volta che Gesù
le raggiunge andando barcollante dove esse cadono, un soldato le spinge o
le getta in altra direzione. E Gesù, soffrendo acutamente, le insegue
senza una parola, mentre i soldati Lo deridono oscenamente.
Può
finalmente rivestirsi. E rimette anche la veste bianca, rimasta pulita
in un angolo. Pare voglia nascondere la sua povera veste rossa, solo
ieri tanto bella ed ora lurida di immondizie e macchiata del sangue
sudato nel Getsemani. Anzi, prima di mettersi la tunichella corta sulla
pelle, con essa si asciuga il volto bagnato e lo deterge così da polvere
e sputi. Ed esso, il povero, santo volto, appare pulito, solo segnato
da lividi e piccole ferite. E si ravvia i capelli caduti scomposti e la
barba per un innato bisogno di essere ordinato nella persona.
E poi si accoccola al sole. Perché trema, il mio Gesù... La febbre comincia a serpeggiare in Lui con i suoi brividi. E anche la debolezza del sangue perduto, del digiuno, del molto cammino, si fa sentire.
E poi si accoccola al sole. Perché trema, il mio Gesù... La febbre comincia a serpeggiare in Lui con i suoi brividi. E anche la debolezza del sangue perduto, del digiuno, del molto cammino, si fa sentire.
Gli legano di nuovo le mani. E la corda torna a segare là dove è già un rosso braccialetto di pelle scorticata.
«E ora? Che ne facciamo? Io mi annoio!».
«Aspetta. I giudei vogliono un re. Ora glielo diamo. Quello lì...», dice un soldato.
E
corre fuori, in un retrostante cortile certo, dal quale torna con un
fascio di rami di biancospino selvatico, ancora flessibili perché la
primavera tiene relativamente morbidi i rami, ma ben duri nelle spine
lunghe e acuminate. Con la daga levano foglie e fioretti, piegano a
cerchio i rami e li calcano sul povero capo. Ma la barbara corona ricade
sul collo.
«Non ci sta. Più stretta. Levala».
La levano e sgraffiano le
guance, risicando di accecarlo, e strappano i capelli nel farlo. La
stringono. Ora è troppo stretta e, per quanto la pigino conficcando gli
aculei nel capo, essa minaccia di cadere. Via di nuovo strappando altri
capelli. La modificano di nuovo. Ora va bene. Davanti è un triplice
cordone spinoso. Dietro, dove gli estremi dei tre rami si incrociano, è
un vero nodo di spini che entrano nella nuca.
«Vedi
come stai bene? Bronzo naturale a rubini schietti. Specchiati, o re,
nella mia corazza», motteggia l’ideatore del supplizio.
«Non
basta la corona a fare un re. Ci vuole porpora e scettro. Nella stalla è
una canna e nella cloaca è una clamide rossa. Prendile, Cornelio».
E,
avutele, mettono il sudicio straccio rosso sulle spalle di Gesù e,
prima di mettergli fra le mani la canna, gliela danno sul capo
inchinandosi e salutando:
«Ave, re dei Giudei», e si sbellicano dalle risa.
Gesù
li lascia fare. Si lascia mettere seduto sul «trono» -un mastello
capovolto, certo usato per abbeverare i cavalli- si lascia colpire,
schernire, senza mai parlare. Li guarda solo... ed è uno sguardo di una
dolcezza e di un dolore così atroce che non lo posso sostenere senza
sentirne ferita al cuore.
I
soldati smettono lo scherno solo alla voce aspra di un superiore che
ordina la traduzione davanti a Pilato del reo. Reo! Di che? Gesù è
riportato nell’atrio, ora coperto da un prezioso velario per il sole. Ha
ancora la corona, la clamide e la canna.
«Vieni avanti. Che io ti mostri al popolo».
Gesù, già franto, si raddrizza dignitoso. Oh! che è veramente re!
«Udite, ebrei. Qui è l’Uomo. Io L’ho punito. Ma ora lasciatelo andare».
«No, no! Vogliamo vederlo! Fuori! Che si veda il bestemmiatore!».
«Conducetelo fuori. E guardate non sia preso».
E mentre Gesù esce nel vestibolo e si mostra nel quadrato dei soldati, Ponzio Pilato Lo accenna colla mano dicendo:
«Ecco l’Uomo. Il vostro Re. Non basta ancora?».
Il
sole di una giornata afosa, che ormai scende quasi diritto perché si è a
metà tra terza e sesta, accende e dà risalto agli sguardi e ai volti:
sono uomini quelli? No: iene idrofobe. Urlano, mostrano i pugni,
chiedono morte...
Gesù
sta eretto. Mai ebbe la nobiltà di ora. Neppure quando faceva i più
potenti miracoli. Nobiltà di dolore. Ma talmente divino che basterebbe a
segnarlo del nome di Dio. Ma per dire quel Nome bisogna essere almeno
uomini. E Gerusalemme non ha uomini, oggi. Ma solo demoni.
Gesù
gira lo sguardo sulla folla, cerca, trova, nel mare dei visi astiosi, i
volti amici. Quanti? Meno di venti amici in migliaia di nemici... E
curva il capo colpito da questo abbandono. Una lacrima cade...
un’altra... un’altra... La vista del suo pianto non genera pietà, ma
ancor più fiero odio.
Viene riportato nell’atrio.
«Dunque? Lasciatelo andare. È giustizia».
«No. A morte. Crocifiggi».
«Vi do Barabba».
«No. Il Cristo!».
«E allora prendetelo voi. E da voi crocifiggetelo. Perché io non trovo alcuna colpa in Lui per farlo».
«Si è detto Figlio di Dio. La nostra legge commina la morte al reo di tale bestemmia».
Pilato si fa pensoso. Rientra. Si siede sul suo tronetto. Pone una mano alla fronte e il gomito sul ginocchio e scruta Gesù.
«Avvicinati», dice.
Gesù va ai piedi della predella.
«È vero? Rispondi».
Gesù tace.
«Da dove vieni? Chi è Dio?»
«È il Tutto».
«E poi? Che vuol dire il Tutto? Che è il Tutto per chi muore? Sei folle... Dio non è. Io sono».
Gesù tace. Ha lasciato cadere la grande parola e poi torna a fasciarsi di silenzio.
«Ponzio, la liberta di Claudia Procula chiede di entrare. Ha uno scritto per te».
«Domine! Anche le donne ora! Venga».
Entra
una romana e si inginocchia porgendo una tavoletta cerata. Deve essere
quella su cui Procula prega il marito di non condannare Gesù. La donna
si ritira a ritroso mentre Pilato legge.
«Mi si consiglia evitare il tuo omicidio. È vero che sei più di un aruspice? Mi fai paura».
«Mi si consiglia evitare il tuo omicidio. È vero che sei più di un aruspice? Mi fai paura».
Gesù tace.
«Ma non sai che ho potere di liberarti o di crocifiggerti?».
«Nessun potere avresti, se non ti fosse dato dall’alto. Perciò, chi mi ha dato nelle tue mani è più colpevole di te».
«Chi è? Il tuo Dio? Ho paura...».
Gesù tace.
Pilato
è sulle spine. Vorrebbe e non vorrebbe. Teme il castigo di Dio, teme
quello di Roma, teme le vendette giudee. Vince un momento la paura di
Dio. Va sul davanti dell’atrio e tuona:
«Non è colpevole».
«Se lo dici, sei nemico di Cesare. Chi si fa re è suo nemico. Tu vuoi liberare il Nazzareno. Faremo sapere a Cesare questo».
Pilato viene preso dalla paura dell’Uomo.
«Lo
volete morto, insomma? E sia. Ma il sangue di questo giusto non sia
sulle mie mani», e fattosi portare un catino si lava le mani alla
presenza del popolo, che pare preso da frenesia mentre urla:
«Su noi, su noi il suo sangue. Su noi ricada e sui nostri figli. Non lo temiamo. Alla croce! Alla croce!».
Ponzio
Pilato torna sul tronetto, chiama il centurione Longino e uno schiavo.
Dallo schiavo si fa portare una tavola su cui appoggia un cartello e vi
fa scrivere: «Gesù Nazareno, Re dei Giudei».
E lo mostra al popolo.
«No. Non così. Non re dei Giudei. Ma che ha detto che sarebbe re dei Giudei», così urlano in molti.
«Ciò
che ho scritto, ho scritto», dice duro Pilato e, dritto in piedi,
stende la mano a palma in avanti e volta in basso e ordina:
«Vada alla croce. Soldato, va. Prepara la croce».
E
scende senza neppure più voltarsi verso la folla in tumulto, né verso
il pallido Condannato. Esce dall’atrio... Gesù resta al centro di esso,
sotto la guardia dei soldati, in attesa della croce.
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