giovedì 31 maggio 2012

Sante parole di un sacerdote della FSSPX circa l'accordo

Riflessioni su un eventuale accordo pratico con
le autorità romane 


 Questo scritto è stato pubblicato sul blog francese tradinews
i neretti sono nostri

si veda la risposta di don Michele Simoulin

e l'editoriale sullo stesso argomento scritto da don Michele Simoulin
sul numero di maggio del Seignadou



Un sacerdote della Fraternità Sacerdotale San Pio X

26 maggio 2012

Dal mese di settembre 2011 sono in corso delle trattative fra le autorità romane, e il particolare il Cardinale Levada, da un lato, e il Superiore della Fraternità Sacerdotale San Pio X, dall’altro. Il contenuto dei documenti scambiati resta in gran parte segreto: come membro di base della Fraternità io conosco verbalmente solo il testo del Preambolo dottrinale e della prima risposta di Mons. Fellay.

A tutt’oggi, sull’argomento esistono dei gravi dissensi nella Fraternità. Che sono stati resi manifesti con la pubblicazione di una corrispondenza tra Mons. Fellay e gli altri tre vescovi. Questi ultimi mettono in guardia Mons. Fellay contro il pericolo di un accordo puramente pratico mentre le autorità romane si ostinano a promuovere gli errori del Concilio Vaticano II.

Diversi sacerdoti della Fraternità si sono espressi pubblicamente per difendere l’opportunità e perfino la necessità di un tale accordo pratico nelle attuali circostanze. Io mi permetto di scrivere questo breve testo per esprimere la mia perplessità su questa eventualità. Lo faccio in maniera anonima poiché mentre quelli che sono favorevoli ad un accordo possono esprimersi liberamente, quelli invece che non condividono questa veduta non sono liberi di esprimere liberamente il loro pensiero. Su questo argomento all’interno della Fraternità regna una sorta di omertà in questo momento.

Non si tratta di opporsi in maniera sovversiva alla legittima autorità, che io rispetto ed onoro, ma di rispondere agli argomenti dei confratelli favorevoli ad un accordo pratico, poiché non mi sembra che questi argomenti debbano comportare l’adesione. Da notare che, a quanto ne so, finora non  è stato firmato alcun accordo, quindi ci troviamo ancora in una fase di consiglio e di deliberazione.

Mi riferirò in particolare ad un testo che ho ricevuto per posta elettronica e che è stato redatto da Don Michele Simoulin, che sta in Francia, nella scuola Saint-Joseph-des-Carmes. Procederò con le citazioni che poi commenterò.

Citazione 1: «Egli [Mons. Lefebvre] sapeva troppo bene cos’è la Chiesa per pretendere di “convertire” Roma. Egli sapeva che è illusorio immaginare che Roma possa sconfessare il Vaticano II».
Quindi, per Don Simoulin, Mons. Lefebvre non poteva immaginare che Roma potesse riconsiderare gli errori del Concilio Vaticano II. Eppure, non potrà attuarsi alcun ritorno alla fede senza condannare la libertà religiosa, l’ecumenismo e la collegialità. Qui non si tratta neanche dell’opportunità di un accordo pratico prima o dopo un chiarimento dottrinale delle autorità romane, ma di una resa totale da parte nostra. Dobbiamo rassegnarci a veder definitivamente trionfare l’errore a Roma. Mi chiedo chi manchi di fede nella divinità della Chiesa!
Per contro, è evidente che nel momento in cui i capi della Chiesa affermeranno nuovamente la fede cattolica e predicheranno il Regno sociale di Nostro Signore, il rinnovamento della Chiesa non si farà in una primavera, ma occorreranno dei decenni per rimuovere il pesante fardello del modernismo e del liberalismo, in attesa della prossima crisi. Quando il ripulisti sarà in atto, noi non aspetteremo la sparizione dell’ultimo granello di polvere per aiutare nella pulizia. Ma per adesso sono all’opera sempre gli errori mortiferi del Concilio: i colloqui dottrinali ne sono stati la prova.

Citazione 2: «Allora essi analizzano con cura tutte le proposte del Papa, ragionano e fanno dei sapienti sillogismi».
Don Simoulin oppone qui i doni della scienza e dell’intelligenza e al dono della saggezza. Solo la saggezza può permettere una veduta d’insieme del problema e proporre una soluzione: subito un accordo pratico. Non si possono opporre in questo modo i doni suddetti. La saggezza non può fare a meno della scienza e dell’intelligenza, anche se li supera. La Chiesa ha sempre avuto bisogno di teologi per difendere la fede ed esplorare ulteriormente il contenuto della Rivelazione. Noi qui ci troviamo a scegliere tra uno studio serrato dei testi del Concilio, che mette in luce la loro opposizione col Magistero di sempre della Chiesa, e un’attitudine più superficiale che afferma che il Concilio non è in contraddizione con la Tradizione o che i suoi errori non sono poi così drammatici. E tuttavia, nel 1992, Mons. Lefebvre scriveva: «Più si analizzano i documenti del Vaticano II e l’interpretazione che ne è stata data dalle autorità della Chiesa, più ci si accorge che si tratta, non solo di alcuni errori, l’ecumenismo, la libertà religiosa, la collegialità, un certo liberalismo, ma anche di una perversione dello spirito» (Fideliter n. 87, pp. 5 e 6). L’anti-intellettualismo non può essere un principio d’azione in questo caso, anche se la prudenza esamina le circostanze concrete.

Citazione 3: «Mi si dice anche: ma guardate cos’è accaduto alla Fraternità San Pietro o all’Istituto del Buon Pastore! Hanno firmato un accordo e Roma li spinge un po’ la volta verso l’accettazione del Concilio! […] Io rifiuto assolutamente il paragone, poiché è gravemente offensivo per la Fraternità! Considerate, vi prego, le circostanze che hanno visto nascere questi istituti! L’infedeltà alla promessa della loro ordinazione…».
Per Don Simoulin, questi istituti detti Ecclesia Dei possono solo scivolare verso l’accettazione del Concilio e delle riforme che l’hanno seguito, a causa del vizio d’origine: sono stati fondati sull’infedeltà alla Fraternità San Pio X. Questo vizio d’origine non può, per definizione, riguardare la Fratrnità, dunque il pericolo di scivolamento dottrinale non esiste. Certo, i fondatori di questi istituti sono spesso dei transfughi della Fraternità, ma la causa di questo scivolamento e delle pressioni romane esercitate nei loro confronti, sta nella loro stessa situazione. È lo stesso loro stato nella Chiesa che li espone, e non le circostanze della loro fondazione. Essi hanno la Messa tradizionale, la teologia tradizionale, ma accettano il Concilio e le sue conseguenze, o in ogni caso mantengono il silenzio sui disordini dottrinali nella Chiesa. Questa posizione, evidentemente, è insostenibile. Se la Messa di Paolo VI è legittima, perché volersi distinguere rifiutando di celebrarla almeno una volta ogni tanto. Ed ecco che le riviste dei preti di questi istituti ci ammanniscono il Beato Giovanni Paolo II per la nostra edificazione spirituale e difendono l’ultima riunione di Assisi. Mons. Pozzo chiede così all’IBP di includere nell’insegnamento del suo seminario il magistero attuale della Chiesa e di prendere a base dell’insegnamento teologico il Catechismo della Chiesa Cattolica, che ha inciso nel marmo le novità del Vaticano II. Se le autorità romane ci danno uno statuto canonico, ma continuano nello stesso tempo a diffondere gli errori del Concilio, anche correggendone certi abusi, noi finiremo  necessariamente nello stesso modo. Ci finirà come l’ultima capra del signor Seguin (*), che non sopporta più di rimanere richiusa e che sogna la libertà nelle montagne. Si crede più forte delle altre, più intelligente, ma se il lupo è sempre là essa in ogni caso non ce la farà a tenere fede al suo impegno. Il lupo ci metterà forse un po’ più di tempo per estenuarla, ma sarà solo una questione di anni. No, bisogna prima sopprimere il lupo. È questo che, nel 1992, faceva dire a Don Schmidberger: «È fuori questione parlare adesso di soluzione giuridica a canonica, si parlerà solo di dottrina» (Fideliter n. 86, p. 3). Ed è per questo che il Capitolo Generale del 2006, nella sua dichiarazione finale, definisce «impossibile» un accordo puramente pratico.

Citazione 4: «La questione fondamentale, quindi, consiste sempre nel nostro amore per la Chiesa. Amiamo la Chiesa anche se è malata? Che diremmo di un figlio che rifiutasse di vivere accanto alla madre malata per timore del contagio? Abbiamo così poca fiducia nella nostra grazia fondatrice? Dubitiamo della nostra capacità di resitenza…?»
Qui bisogna distinguere tra la fede e la carità. La carità può spingerci ad occuparci di un malato senza temere il contagio, come San Luigi Gonzaga o il Padre Damiano. Per contro, se ci è dato esporre la nostra vita naturale, non possiamo esporre la nostra fede, fondamento della vita soprannaturale. Noi effettivamente dobbiamo temere un contagio del modernismo e del liberalismo e proteggerci quanto necessario. Solo dei teologi agguerriti possono argomentare contro gli esperti del Concilio, com’è avvenuto in occasione dei colloqui dottrinali. La fiducia in Dio non giunge fino alla presunzione, alla messa in pericolo della nostra fede in mezzo a delle circostanze pericolose. Il fatto che siamo figli spirituali di Mons. Lefebvre non significa che siamo rivestiti di una corazza a tutta prova. Ancora una volta, l’amara esperienza degli istituti Ecclesia Dei dovrebbe farci tenere una grande circospezione. No, l’amore della Chiesa non basta, purtroppo, per prevenire ogni contagio dall’errore insidioso e ben affermato del liberalismo.

Noi dunque possiamo raccomandare solo una grande prudenza in questa questione. Se l’accordo concluso ci lascia una totale libertà di parola e d’azione, sta ai nostri Superiori giudicare se è opportuno approfittarne per il bene della Chiesa, pur conservando l’unità della Fraternità. Se non è così, noi possiamo legittimamente temere un’attenuazione delle critiche contro gli errori moderni, poi la loro messa in sordina e quindi la loro sparizione, al pari di gravi turbamenti all’interno della nostra Fraternità.
Non è rompendo il termometro che la febbre sparisce, ma non è neanche mettendolo definitivamente nella bambagia.






Nota nostra
* - Si tratta di uno dei racconti di Alphonse Daudet, contenuto nelle “Lettere dal mio mulino”. In esso si narra del signor Seguin che porta le capre a pascere sui monti, dove il lupo le divora. Per evitare che l'ultima faccia la stessa fine, egli la rinchiude nella stalla. Ma la capra non sopporta la segregazione e approfittando di una finestra aperta ritorna sulle montagne. Giunta la sera e sentito il richiamo del suo padrone, decide di evitare la segregazione e resta sulle montagne. Qui, per tutta la notte si batte valorosamente contro il lupo, ma il mattino seguente, spossata da un combattimento impossibile, si lascia divorare dal lupo.



Tratto da: UnaVox.it







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