Vladìmir Vladimirovich Putin: la sua vita per capire il suo modus operandi e il suo pensiero
Vladìmir Vladimirovich Putin:
la sua vita per capire il suo modus operandi e il suo pensiero
Prologo
Le
recenti vicende belliche in Crimea e in Ucraina (gennaio/settembre 2014)
ci fanno toccar con mano ciò che sino a ieri poteva apparire, agli
occhi dei più, soltanto una probabilità. Il Nuovo Ordine Mondiale vuole
distruggere Putin e la Russia putiniana, poiché stanno giocando il ruolo
del katéchon, ossia “l’ostacolo che trattiene” (San Paolo) le forze
della Sovversione mondialista e globalizzatrice (Israele, Usa e l’Arabia
Saudita wahabita). Se non ci fosse stato Putin, gli Usa avrebbero fatto
fare alla Siria la stessa fine che hanno fatto fare all’Iraq.
L’ostacolo che ha fermato l’invasione della Siria, poi dell’Iran e
infine della Russia è stato Putin. Questo è un fatto e “contro il fatto
non vale l’argomento”.
Putin è diventato oramai per i mass media
finanziati dalla “contro-chiesa” il neo-Hitler, il neo-Saddam, il
neo-Gheddafi o il neo-Assad da eliminare. Si inizia con la manipolazione
del pensiero (Putin viene già dato per impazzito) a mezzo stampa,
televisione e radio per terminare con una condanna capitale pubblica ed
esemplare (come è successo per Saddam e Gheddafi), una sorta di
“Norimberga 1946/permanente” che non passa e non deve passare proprio
come la shoah.
L’Europa e l’Italia del XX secolo,
schiave degli Usa già a partire dalla prima e soprattutto dalla seconda
guerra mondiale son divenute una mera base logistica di atterraggio e di
lancio per gli aerei degli Stati Uniti d’America e d’Israele (che
anch’esso, da qualche anno, ha una parte della sua flotta aerea
stanziata in Sardegna). L’Unione Europea del XXI secolo è
geo-politicamente e finanziariamente un’appendice del nord America, anzi
un’appendicite infiammata e oramai purulenta prossima alla peritonite.
Inoltre la politica dell’UE nei confronti
della Russia, come è successo con l’Iran e la Libia, è
auto-lesionistica per l’economia della Vecchia Europa. Infatti l’embargo
decretato dagli Usa e dall’UE contro la Russia ha delle ripercussioni
molto gravi sull’economia europea già in semi-fallimento conclamato a
partire dal 2010.
L’alleato naturale (fisico, storico, culturale e geografico) dell’Europa non dovrebbero essere forse proprio le Nazioni limitrofe dell’est europeo e del Mediterraneo: Russia occidentale o europea (non forzatamente quella asiatica), Siria e Libia?L’Atlantico non è forse uno spazio troppo vasto (rispetto al Mediterraneo e all’Europa dell’est) per poter essere valicato facilmente e rifornire, ad esempio, l’Europa occidentale di gas, che la Russia non ci darà più e che gli jiadhisti di Daesh (ISIS-ISIL…) hanno, recentemente, quasi interamente bruciato in Libia dopo la scomparsa (decretata dagli Usa del Presidente Obama ed eseguita dalla Francia del Presidente Sarkozy) di Gheddafi?Eppure l’UE si è schierata, suicidariamente, contro i suoi vicini di terra e di mare, con i quali commerciava (importando ed esportando) e con i quali non potrà più far affari proprio nel momento del suo maggior bisogno.
I politici europei (marionette nelle mani
dell’Alta Finanza e dei Club o Think-Tank mondialisti
israelo/americani) fanno finta che il re sia vestito (ossia, che
l’Europa e l’Italia stiano in piena “salute”, v. Matteo Renzi), mentre
invece “il re è nudo” (v. Christian Andersen). In realtà occorre
svegliarsi e unire le nostre forze in vista di arrestare il “trasbordo
ideologico/finanziario inavvertito” verso la plutocrazia
israeliano/americana e capire se non ci conviene stare con Putin
piuttosto che con Washington, Tel Aviv o “Bruxelles”.
Per capire meglio la questione è utile
conoscere la vita e il pensiero di Vladìmir Putin. A questo proposito ci
è utile un bel libro, ben documentato, appena uscito preso l’editore Mondadori di Milano, intitolato “Putin. Vita di uno zar“, scritto da Gennaro Sangiuliano,
vicedirettore del TG 1 e collaboratore del Sole 24 ore. Mi baso su di
esso per porgere al lettore i tratti essenziali della personalità di
Vladìmir Putin.
Introduzione panoramica
Vladìmir Putin è nato il 7 ottobre del
1952 a Leningrado (l’odierna San Pietroburgo), che è stata la città
sovietica ad aver subìto il più massiccio e cruento assedio nella guerra
tra Germania e Urss, assedio durato circa 3 anni, in cui son morti
circa 1 milione di cittadini.
I genitori di Putin, che vivevano a Leningrado durante la seconda guerra mondiale, sono scampati alla morte, ma la madre ha rischiato di morire di fame e il padre è stato gravemente ferito ad una gamba in battaglia, ferita che lo lascerà semi-invalido per tutto il resto della sua vita.
I genitori di Putin, che vivevano a Leningrado durante la seconda guerra mondiale, sono scampati alla morte, ma la madre ha rischiato di morire di fame e il padre è stato gravemente ferito ad una gamba in battaglia, ferita che lo lascerà semi-invalido per tutto il resto della sua vita.
Il giovane Vladìmir era piccolo di
statura, gracile, ma molto forte di carattere, assai coraggioso, quasi
temerario; inoltre non gli faceva difetto un’intelligenza viva e pronta,
che lo ha portato a leggere molto, anche se come carattere era
piuttosto un giovane “di strada” turbolento e, come ha detto lui stesso,
“un teppista”.
A 12 anni Vladìmir legge ‘Lo scudo e la
spada’ un best-seller che racconta le avventure di uno 007 sovietico,
diventato successivamente una popolare fiction televisiva, una specie di
James Bond sovietico. Dall’amore per questo personaggio sarebbe nata la
sua vocazione di entrare nel Kgb, il servizio segreto sovietico, dopo
aver conseguito una brillante laurea in giurisprudenza in una delle più
prestigiose università dell’Urss, del quale Kgb divenne colonnello e poi
Direttore (nonché vicesindaco di Leningrado e Presidente della Russia a
partire dal 2000).
La mentalità di Putin rappresenta il
tentativo della Russia dopo il crollo dell’Urss (1989) di resistere
all’americanizzazione, all’occidentalizzazione e quindi alla
globalizzazione del mondialismo. Egli, inoltre, ha scongiurato la
restaurazione del comunismo in Russia dopo il 1989 data l’incompetenza
dei “democratici”, ossia i partigiani di Boris Eltsin.
Certamente Vladìmir ha combattuto con fermezza e spietatamente la guerra contro la Cecenia, che è stata una “guerra sporca, come lo fu quella degli americani in Vietnam, ma con la differenza che la prima era un pezzo della Russia, mentre l’Indocina era a migliaia di chilometri da Washington” (G. Sangiuliano, Putin. Vita di uno zar, Milano, Mondadori, 2015, p. 6).
Inoltre “la massiccia presenza dei
guerriglieri ceceni in Siria, Iraq – a fianco dei talebani e dell’Isis
-rivela che, se Putin non avesse stroncato la Cecenia islamica, sarebbe
sorto un califfato islamico in Russia che avrebbe minacciato la
sicurezza globale” (ivi).
La Russia di Putin non è una democrazia, è questa l’obiezione più frequente contro il Presidente russo, ma “la Russia non può essere una democrazia perché se lo fosse non esisterebbe” (L. Caracciolo, la Repubblica, 7 marzo 2015).
I politologi parlano di “democrazia
controllata” per distinguere il regime di Putin da quello totalitario
sovietico, da quello autoritariozarista e nello stesso tempo dalla
“democrazia libertaria e agnostica” occidentale, che dimentica le sue
tradizioni culturali e religiose, le quali al contrario sono la base
comune della Russia putiniana.
Per Putin il governo della Russia non può
reggersi senza un attaccamento profondo al senso della gerarchia e del
comando, al popolo inteso come comunità radicata nella propria terra o
Patria, che ha una tradizione religiosa ben specifica (il Cristianesimo)
e una cultura (specialmente letteraria e musicale, fisica, matematica e
chimica) di prim’ordine.
Invece gli intellettuali occidentali
hanno perso il contatto con la realtà e il popolo (che non è la massa)
ed hanno installato una Società sradicata, senza terra, Patria,
religione, tradizione, gerarchia, ordine, disciplina e soprattutto senza
anima culturale e religiosa.
La stirpe in senso lato, la cultura, la tradizione, la religione, una certa metafisica hanno un ruolo fondamentale secondo Putin per poter mantenere in piedi un Paese.
La stirpe in senso lato, la cultura, la tradizione, la religione, una certa metafisica hanno un ruolo fondamentale secondo Putin per poter mantenere in piedi un Paese.
La deficienza di tutto ciò ha portato,
secondo Putin, al crollo dell’Urss nel 1989 e porterà al crollo degli
Usa e dell’Occidente atlantico, che ha tagliato le sue radici europee
per installarsi, contro la sua natura, nel deserto culturale, spirituale
e tradizionale dell’America del nord, che al massimo può rifarsi
all’illuminismo britannico, il quale è la negazione della metafisica
europea ossia greco/romana e cristiana.
Un personaggio, che è un punto di
riferimento per la cultura metafisica e tradizionale, ha giocato un
ruolo di padre e maestro per Putin: Alexander Solgenitsin, il quale ha
sempre ricordato a oriente come ad occidente che la soluzione dei
problemi creati dal comunismo sovietico alla Russia non poteva essere il
liberismo anglosassone e specialmente americano.
L’adolescenza di Putin
Un
episodio della vita di Putin tredicenne ci fa capire la sua
personalità, il suo carattere e il suo modo di pensare e di agire (cfr.
G. Sangiuliano, cit., cap. I).
Un mattino un bambino amico di Vladìmir
viene pestato nel cortile del suo palazzo popolare e periferico, senza
ragione, da un bullo grande e grosso di 18 anni. Vladìmir assiste
impassibile alla scena e non interviene perché il bullo è accompagnato
da un nutrito “branco”. Però per lui l’amicizia è sacra e quindi decide
di vendicare l’amico. Si siede nel centro del cortile e aspetta che la
sera il bullo rientri a casa. La lotta sarebbe impari, ma Vladìmir salta
sopra il bullo e lo prende a pugni, calci, graffi, morsi (G.
Sangiuliano, cit., p. 13). Il bullo è sopraffatto dall’aggressività di
Putin, che è una delle componenti del suo carattere giovanile, la quale
tuttavia è stata domata da Vladìmir con lo judo, la riflessione, gli
studi e la voglia di entrare nel Kgb. Il non abbandonare mai un amico,
soprattutto se caduto in disgrazia o se in difficoltà, fa parte della
personalità di Putin e questo non bisogna mai dimenticarlo neppure a
livello internazionale, politico e bellico.
Il padre di Vladìmir si era arruolato
volontario in un corpo d’élite dell’Armata Rossa appartenente alla NKVD
(l’antenata del Kgb) ed aveva combattuto la battaglia della “sacca della
Neva” ove gli scontri erano assai cruenti e persino feroci ed era
tornato, finita la battaglia di Leningrado, a casa ma come invalido
permanente ad una gamba. Si era iscritto ancor giovane al Partito
Comunista Sovietico ed era un comunista convinto e militante.
La
madre aveva rischiato di morire di fame nel lungo assedio di Leningrado
e ne ha risentito per tutta la vita camminando a fatica ed
appoggiandosi sempre ad un bastone. Putin ha confessato di essere stato
battezzato in segreto da sua madre, fervente cristiana, contro il parere
del padre, convinto ateo bolscevico.
Finita la guerra il padre di Vladìmir trova posto come operaio specializzato in una fabbrica di materiale ferroviario.
La casa della famiglia Putin misura 20
metri quadrati, consta di una sola camera in cui si dorme, si mangia, si
studia. Naturalmente la strada diventa il luogo preferito del giovane
Vladìmir, che ammetterà di essere stato un piccolo teppista di strada e
di essersi conquistato uno spazio vitale nella dura vita della periferia
di Leningrado. L’aggressività è una caratteristica del carattere di
Vladìmir, che non sopportava di esser insultato e veniva sùbito alle
mani in maniera molto violenta e quasi furiosa.
A scuola è vivace, intelligente, indisciplinato, aggressivo, ma capace di riuscire negli studi. “Man mano che cresceva, Putin, pur mantenendo un carattere vivace, migliorò di molto i rapporti con la scuola, cominciandosi a distinguere per intelligenza ed impegno. Intorno ai 13 anni era uno degli elementi più brillanti, seguiva con attenzione le lezioni, approfondiva e leggeva di continuo. […]. La predisposizione ai gesti di violenza resta, ma Vladìmir cerca di indirizzarla in un’attività sportiva: prova il pugilato, ma gli viene spaccato il setto nasale. Allora sceglie il sambo, una lotta tipicamente russa, che fonde elementi di karatè e di judo con l’aggiunta di alcune mosse di corpo a corpo popolare russo. […]. La passione per le arti marziali continuerà negli anni successivi e Vladìmir si dedicherà al judo, diventando, nel 1976, campione cittadino di Leningrado, dopo esser diventato cintura nera del sesto dan” (G. Sangiuliano, cit., p. 22).
L’amore per il KGB
La
sede del Kgb di Leningrado incute timore a tutti, ma nel 1968 un esile
ragazzo di 16 anni entra spedito in quel palazzo e chiede ad un agente
di guardia informazioni per lavorare presso il Kgb. L’agente risponde
infastidito che non si sceglie il Kgb, ma si è scelti. Inoltre occorre
una laurea in legge (G. Sangiuliano, cit., p. 39). Vladìmir finisce
quindi gli studi secondari, apprende il tedesco e l’inglese assai bene e
intraprende l’esame per essere ammesso nella facoltà di giurisprudenza
di Leningrado, cosa difficilissima in quegli anni, in cui l’università
era riservata ai figli dei burocrati del Partito Comunista Sovietico.
Nonostante ciò Vladìmir, nel 1970, supera i test ed entra nella facoltà
di legge.
Tuttavia anche negli anni universitari Vladìmir “mantiene il suo carattere introverso e sospettoso di tutti. […]. Non beve alcolici, non gioca, è freddo di carattere” (G. Sangiuliano, cit., p. 42).
Un’altra passione di Vladìmir è la musica classica.
Inoltre «è ordinato e cauto anche nelle amicizie femminili. Durante gli studi conosce una studentessa in medicina molto carina, con la quale intraprende una relazione importante. […].“Fu un amore molto importante, eravamo decisi a sposarci”, rievocherà anni dopo Vladìmir, “avevamo chiesto la licenza matrimoniale, tutto era pronto… quella di annullare le nozze fu la decisione più difficile della mia vita. È stato davvero tremendo, mi son sentito male. Ma ho deciso che era meglio soffrire allora che aver entrambi molti problemi dopo”.Il divorzio era concesso in Urss, ma veniva valutato male dal Partito per chi si proponeva di far carriera. Perché il giovane Putin ruppe la promessa di matrimonio? Non lo ha mai chiarito, ma è probabile che sia stato per la carriera […] il Kgb gli avrebbe suggerito di non sposarsi troppo giovane» (G. Santangelo, cit. p. 44-45).
Alla facoltà di giurisprudenza di
Leningrado, Vladìmir incrocia per la prima volta Anatolij Sobciack, un
valente e colto giurista. Ora definire Sobciack un dissidente, alla pari
di Sacharov e di Solgenitsin, è eccessivo, ma appartiene alla cerchia
di intellettuali non in piena sintonia col regime sovietico. Egli
propugna, nelle sue lezioni universitarie, il passaggio da un’economia
socialista a un’economia di mercato. Il giovane Putin ne resta
affascinato.
La chiamata del KGB
Dopo
4 anni di università Putin ricevette una telefonata. Era un funzionario
del Kgb che volle incontrare Vladìmir e restò bene impressionato dal
carattere riservato, non particolarmente espansivo, ma pieno di energia,
di flessibilità mentale e di coraggio del giovane Putin, che inoltre
possedeva alla perfezione la lingua tedesca e inglese. Quindi fu
ingaggiato nel Kgb.
A 23 anni Putin si laurea con una tesi di
diritto internazionale, il che gli aprirà più tardi le porte per il suo
lavoro di agente segreto in Germania orientale. Siamo verso la metà
degli anni Settanta, l’Urss è all’apice della sua potenza militare,
tecnologica e politica. Invece gli Usa si trovano in difficoltà: si è
appena conclusa la guerra in Vietnam con la sconfitta americana (aprile
1975) ed inoltre lo scandalo Watergate costringe il presidente Richard
Nixon alle dimissioni. Il neo presidente Jimmy Carter è privo di
esperienza e senza una chiara visione di politica estera. Questo stato
di debolezza statunitense terminerà nel 1981 con l’arrivo alla Casa
Bianca di Ronald Reagan e l’Urss cerca di sfruttare la momentanea crisi
nordamericana.
“Dopo 4 anni dalle dimissioni di Nixon i sovietici si erano convinti, grazie ai rapporti del Kgb, che la caduta di Nixon fosse stata determinata… da un complotto ordito dai nemici della distensione. I servizi segreti sovietici indicavano espressamente i sionisti o meglio la lobby ebraica” (G. Sangiuliano, cit., p. 50).
Eppure la potenza dell’Urss corrisponde
solo alla superficie della società civile sovietica. La realtà è il
fallimento sociale, economico e politico. Il socialismo reale ha
prodotto una miseria diffusa in tutta l’Unione sovietica. L’unica cosa
che non manca, purtroppo, è la vodka, che alimenta la piaga sociale di
un alcolismo diffusissimo.
Ciò nonostante le università sovietiche
continuano a sfornare una classe di fisici, matematici e chimici
geniali, le cui scoperte vengono, però, affossate dalla burocrazia.
Il comunismo sovietico è fallito
Il
KGB sin dagli anni Settanta era ben conscio di questa situazione reale
di degrado interno e sostanziale, che era diametralmente opposta alla
facciata di potenza, oramai soltanto esteriore e accidentale, dell’Urss.
Questo è un altro paradosso sovietico: il fatto che proprio il Kgb,
ossia la punta di diamante del socialismo reale, sia perfettamente
conscio del fallimento e dell’implosione oramai prossima del comunismo
russo, negata dalla classe dirigente e appena avvertita dalla
popolazione.
Da una parte la propaganda politica del Partito Comunista esaltava le grandezze apparenti dell’Urss e dall’altra i servizi segreti sovietici “andavano maturando la consapevolezza che il sistema era marcio e non avrebbe retto a lungo. Ma negli anni Settanta l’implosione è ancora lontana anche se i germi dello sfascio sono costanti”(G. Sangiuliano, cit., p. 55).
Anche il livello altamente specializzato del Kgb iniziava a scricchiolare. Putin se ne accorge subito.
Nel febbraio del 1976 viene mandato a sostenere un corso operativo a Ochta uno dei centri più qualificati dell’intelligence sovietica e lo definisce: “una scuola assolutamente insignificante” (G. Sangiuliano, cit., p. 56).
Negli anni Settanta scoppia il caso della
dissidenza dei grandi intellettuali russi. Alexandr Solgenitsin scrive
Arcipelago Gulag nel 1972, che viene tradotto in inglese e diffuso in
mezzo mondo nel 1974.
Il consenso è travolgente anche in Urss. Breznev perde le staffe e lo qualifica “una rozza caricatura anti-sovietica scritta da un teppista”.
Solgenitsin replica pacatamente e con argomenti solidi: il comunismo
vorrebbe durare in eterno, ma ha fallito irrimediabilmente; l’unica via
di salvezza per la Russia è abbandonare il marxismo/leninismo per
aderire ad una ideologia politica nazionale e patriottica di base
religiosa.
Putin è pienamente d’accordo con
Solgenitsin. Andropov, l’allora direttore del Kgb, è preoccupato poiché
capisce che la situazione reale è quella descritta da Solgenitsin.
Putin ha sempre affermato, in varie
interviste riportate da Gennaro Sangiuliano nel suo libro, di non avere
mai partecipato alle attività repressive degli intellettuali dissidenti
poiché la sua missione era quella del controspionaggio.
Anzi alcuni colleghi di Putin hanno testimoniato che Vladìmir “aveva maturato gli stessi punti di vista di Sacharov e provava un rispetto speciale per Solgenitsin” (G. Sangiuliano, cit., p. 62).“L’agente Putin si va progressivamente convincendo che l’Urss è marcia nel sistema, che la stagnazione economica non sarà mai superata se non si ha il coraggio di rompere lo schema del socialismo reale per passare a un’economia di mercato, perché la proprietà privata è un elemento naturale dell’essenza umana” (ivi).
Il matrimonio
Il
28 luglio del 1983 Vladìmir sposa, dopo 3 anni e mezzo di fidanzamento,
una giovane ragazza di nome Ludmilla. Anche lei era stata battezzata di
nascosto a 5 anni da sua madre, la cui religiosità mai sopita sarà
decisiva per il risveglio religioso di Putin avvenuto qualche anno dopo.
Un fatto intercorso tra Vladìmir e
Ludmilla durante il loro fidanzamento, che viene riportato da
Sangiuliano, ci fa capire ancor meglio la personalità di Putin. Egli è
molto geloso e non accetta comportamenti troppo allegri o occidentali.
Nel 1985 nasce Maria, la prima figlia, a
Leningrado; la seconda, Katerina, nascerà a Dresda. La prima porta il
nome della madre di Putin, la seconda quello della madre della mamma,
secondo tradizione.
In Germania orientale
Putin arriva a Dresda nel 1985 appena dopo la morte di Cernenko e l’avvento al Cremlino di Gorbaciov.
“La crisi morale e materiale del comunismo, latente da almeno un ventennio, esplode e inizia il periodo di turbolenza che culminerà con la dissoluzione dell’Urss” (G. Sangiuliano, cit., p. 79).
Nel novembre del 1989 cade il muro di
Berlino e la sede della Stasi (la polizia politica tedesca orientale)
viene presa d’assedio; il 3 dicembre tocca alla sede del Kgb di Dresda
ove risiede Vladìmir che è ancora un maggiore del Kgb. Egli decide di
non usare le armi; la polizia della Germania dell’est è allo sbando e
non soccorre i colleghi del Kgb. Putin va a parlare con la folla dei
dimostranti e solo quando molto più tardi giunse un distaccamento
militare sovietico la folla che si era fatta minacciosa si disperse.
«C’erano state tante minacce verbali ma non era accaduto nulla di violento. Gli agenti del Kgb si erano armati, ma il giovane maggiore aveva raccomandato moderazione e calma. Per il resto tutto era chiaro: “Ebbi l’impressione che il Paese non ci fosse più. Era chiaro che l’Urss era malata di quel morbo micidiale che si chiama paralisi del potere”» (G. Sangiuliano, cit., p. 84).
Il crollo del comunismo sovietico e il ritorno a Leningrado
La città è in preda al caos, gli
approvvigionamenti alimentari sono scarsi, il riscaldamento è un lusso,
il caos e l’anarchia regnano in Urss.
Putin provava un forte disappunto per il crollo di tutto. Era molto disincantato e si chiedeva: “come hanno potuto sbagliare? Non ascoltare le nostre parole? nessuno a Mosca ha letto i nostri rapporti? Noi li avvertivamo di quello che stava per accadere” (G. Sangiuliano, cit., p. 87).
La perestroika (ristrutturazione) e la
glasnost (trasparenza) di Gorbaciov non ottengono nulla. Gorbaciov è un
dirigente comunista che pensa di poter risolvere il problema sovietico
con la distinzione tra comunismo vero e buono contro comunismo falso e
cattivo. Egli non ha intenzione di abbattere il Partito Comunista
Sovietico, lo vuol ringiovanire e guarire, ma all’interno dell’Urss egli
non gode di grande successo come invece avviene all’estero. Al degrado
economico si accompagna il caos politico e la presenza costante della
criminalità organizzata. Inoltre la fine del comunismo porta con sé il
risveglio religioso cristiano ed anche il pericolo della nascita di una
sorta di Califfato islamico nelle Repubbliche ex sovietiche di fede
musulmana. Nel 1988 iniziano i primi conflitti nel Caucaso tra
l’Azerbaigian musulmano e l’Armenia cristiana e si arriverà alla guerra
aperta nel 1992.
Frattanto ascende l’ingegnere Boris
Eltsin, che sin dall’inizio dà prova di voler veramente cambiare lo
status quo dell’Urss e non solo la facciata come Gorbaciov. Il 15 marzo
1989 Gorbaciov viene eletto presidente dell’Urss, ma il 29 marzo Eltsin è
eletto Presidente del Congresso della Repubblica Russa e non sovietica.
Da quel momento a Mosca ci sono de facto 2 parlamenti, con 2
presidenti: una struttura sovietica e una russa. Questo assetto non può
durare. Gorbaciov è sempre più isolato all’interno del suo Paese, sembra
un visionario che sogna il ristabilimento del comunismo sovietico sotto
una forma meno radicale come era successo nel processo di
de-stalinizzazione.
“Il 17 agosto del 1991 scatta un golpe dei comunisti radicali contro Gorbaciov, che rimane passivo. Eltsin si schiera sùbito ed energicamente contro il golpe e Putin è con Eltsin. L’atteggiamento deciso di Eltsin fa fallire il golpe. Gorbaciov viene destituito da Eltsin, che decreta la fine dell’Urss e del Pcus” (G. Sangiuliano, cit., p. 101-103).
Putin è tentato di lasciare il Kgb e di
darsi alla carriera universitaria come assistente del suo vecchio
professore Sobcak, il più grande giurista russo, che nel 1990 diventa
sindaco di Leningrado con Putin come vice-sindaco. Ma nel 1993 scatta un
secondo golpe dei vetero-comunisti contro Eltsin e Sobcak. Nelle ore
più critiche Sobcak è asserragliato nella dacia di Eltsin nei pressi di
Mosca, ma l’arresto di Eltsin fallisce 2 volte (il comunismo sovietico è
veramente in crisi). Putin torna urgentemente a Leningrado oramai
chiamata San Pietroburgo.
“Raccoglie uomini armati e li schiera in aeroporto” (G. Sangiuliano, cit., p. 114).Il golpe fallisce grazie “alla reazione militare efficiente. Eltsin ordina l’assalto delle forze speciali del Gruppo Alfa, tra gli assalitori c’è un reparto speciale, il tradizionale corpo delle teste di cuoio russe, giunte da San Pietroburgo. A coordinare il trasferimento e a curarne la logistica è l’ex tenente colonnello Vladìmir Putin” (G. Sangiuliano, cit., p. 137).
La conversione di Putin
Nel
1991 la dacia della famiglia Putin prende fuoco. Dentro erano rimaste
Maria, la figlia maggiore, e la segretaria di Putin (allora vice-sindaco
di San Pietroburgo).
Putin entrò nella casa in fiamme, prese
la figlia e la scaraventò oltre il balcone tra le braccia di alcune
persone accorse che l’afferrarono al volo, poi aiutò la segretaria a
scendere grazie a delle lenzuola strappate ed incordate. Però commise
un’imprudenza: rientrò nella dacia oramai riempita di fumi tossici per
riprendere una borsa in cui aveva tutti i suoi risparmi, ma non vi
riuscì e per ritrovare l’uscita dovette avvolgersi in una coperta che
gli aveva regalato sua madre, la quale la riteneva benedetta. Quindi
saltò fuori un secondo prima che tutto crollasse.
“A questo episodio si attribuisce la conversione di Putin, anche se era già stato battezzato, alla religione cristiana ortodossa” (G. Sangiuliano, cit., p. 129).
Gli oligarchi e la mafia russa si impadroniscono della famiglia Eltsin
La Russia, però, finito il rigore
sovietico, entrava in uno stato ancora incerto e indefinito in cui
Eltsin, caduto vittima dell’alcolismo, della malattia e delle brame
delle sue figlie era finito nelle braccia di alcuni speculatori
(oligarchi) che avevano iniziato a comperare a quattro soldi i colossi
dell’industria russa. Inoltre la mafia aveva iniziato ad approfittare di
questo stato di assenza di autorità ed era penetrata nei gangli vitali
dello Stato e dell’economia.
Sobcak era un uomo di cultura ma non di
governo e non fu capace di rimediare, appariva scollegato dalla realtà.
Gennaro Sangiuliano paragona la Russia dei primi anni Novanta alla
Palermo degli anni Settanta, affetta da due gravi malattie: il
capitalismo sfrenato e sregolato e la criminalità organizzata che cerca
di rimpiazzare lo Stato.
L’unica uomo politico capace di affrontare una situazione del genere era Vladìmir Putin.
“Eltsin ha avuto indubbi meriti storici e nel contempo incontestabili demeriti. È stato l’uomo che difese la Russia dai rigurgiti di stalinismo, ma che consentì un autentico Far West economico-sociale. […]. Eltsin riteneva che la Russia potesse diventare un’economia di mercato come gli Usa ed affidava la direzione dell’economia a quegli economisti che venivano definiti neo-Chicago boys leningradesi, guidati da Egor Gajdar e Anatolij Cubais [nemico acerrimo di Putin perché non lo ritiene manipolabile], che propugnavano una terapia shock secondo le teorie ultra-liberiste” (G. Sangiuliano, cit., p. 138).
Gli
oligarchi che hanno avvinghiato Eltsin e la sua famiglia sono Boris
Berezovskij, Vladìmir Gusinkij, Michail Khodorkovskij, Alexey
Mordaschov, Oleg Deripaska, Roman Abramovich … non sono estranei a
questa strategia alcuni centri di potere internazionale: a Mosca
arrivano gli emissari di alcune grandi banche americane…
Nel 1996 la
salute barcollante di Eltsin tracolla. Nel 1998 arriva alla Russia un
sostegno finanziario del Fondo Monetario Internazionale (FMI) di 11
miliardi di dollari, un anno dopo un’indagine della Corte dei Conti
russa dimostrerà come gran parte di quei dollari, invece di andare a
sostegno dell’agonizzante economia russa, fossero finiti nelle casse di
27 banche commerciali, molte delle quali non russe… Dunque il sostegno
alla Russia si era rivelato soltanto un aiuto alle banche americane ed
europee e magari a qualche oligarca “russo” di origine israelitica (G. Sangiuliano, cit., p. 147-148).
“Il 25 luglio 1998 Putin viene nominato direttore del nuovo Kgb (Fsb), ma l’Fsb non ha più il potere di una volta, anzi molti suoi agenti sono al servizio degli oligarchi o della mafia russa” (G. Sangiuliano, cit., p. 151).
In questo periodo Sobcak era caduto in
oblio, ma Putin non si è scordato di lui e lo fa espatriare in Francia.
Uno dei tratti salienti del suo carattere è che non si abbandona un
amico soprattutto se è caduto in disgrazia.
Il 9 agosto del 1999 Eltsin, che,
malgrado la dipendenza dall’alcol e la cattiva famiglia che lo circonda,
mantiene un barlume di buon senso e di amor patrio, nomina Putin primo
viceministro. Infatti capisce che oramai lui è finito come uomo e come
leader e comprende che solo Putin ha la forza, l’intelligenza e il
coraggio per affrontare gli oligarchi “russi” e la mafia che ha invaso
l’intera società russa.
La guerra contro l’islamismo ceceno
Il 13 settembre 1999 a Mosca salta in
aria un intero palazzo, in cui abitano le famiglie dei poliziotti russi.
Si tratta di terrorismo. La responsabilità è dei ceceni islamisti. La
risposta di Eltsin è durissima, ma chi prende in mano le redini della
reazione è Putin, che pronuncia una frase rimasta famosa:
“è inutile che si nascondano, li inseguiremo ovunque fuggano, ovunque si vadano a nascondere. Anche nel cesso. E li ammazzeremo nel cesso” (G. Sangiuliano, cit., p. 168).
Inizia
la tragica partita tra la Russia e gli indipendentisti ceceni di
matrice islamistica. Nel 1991 la Cecenia approfittando della debolezza
della Russia proclama la sua totale indipendenza da Mosca. Nel 1994
Eltsin invia 40 mila soldati in Cecenia per riprendersela, ma l’Armata
Rossa è oramai un fantasma e dopo 2 anni Eltsin è costretto a
riconoscere l’indipendenza della Cecenia.
Putin, divenuto da poco capo del governo,
capisce che la questione cecena è cruciale per la sopravvivenza della
Russia. Inizia quindi un massiccio uso dell’aviazione, che bombarda le
postazioni dei guerriglieri ceceni. Gli attacchi ora sono massicci e
brutali. Il 25 agosto 1996 i generali russi annunziano la sconfitta e
l’eliminazione di oltre mille guerriglieri ceceni.
Putin dichiara: “ero convinto che se non avessimo fermato i guerriglieri sùbito, saremmo finiti per diventare una seconda Jugoslavia. Era necessario riprendere il Daghestan e buttare fuori i guerriglieri ceceni” (G. Sangiuliano, cit., p. 173).
La seconda guerra ingaggiata da Putin è quella contro gli oligarchi. Egli…
“non solo non vuole farsi manipolare dagli oligarchi, ma decide che è giunto il tempo di sganciarsi da loro” (G. Sangiuliano, cit., p. 176).
Eltsin è ancora de jure il capo, ma deve
cedere il potere poiché non è più in grado di esercitarlo, oramai
schiavo dell’alcol, degli oligarchi e della mafia russa (che è una
specie di braccio armato dell’oligarchia neo-liberistica “russa”).
L’Occidente, però, non vuole che il
potere passi a Putin, il quale farebbe gli interessi della Russia.
Tuttavia il potere dovrebbe essere esercitato, se non da Putin, dai
“democratici”, che sono sognatori e incompetenti; nella migliore delle
ipotesi sarebbe un ritorno all’era Gorbaciov.
Allora intervengono Sacharov e Zinoviev che assieme a Solgenitsin spingono l’opinione pubblica alla rivolta contro l’americanizzazione e la globalizzazione della Russia (G. Sangiuliano, cit., p. 181).
Eltsin mantiene ancora un briciolo di amor patrio e di buon senso. Quindi il 31 dicembre del 1999 cede a Putin il potere reale:
“due colonnelli delle Forze strategiche missilistiche raggiungono Putin nel suo ufficio di vice premier e gli consegnano i codici di lancio delle armi nucleari. È il vero scettro del potere” (G. Sangiuliano, cit., p. 182).
Sùbito dopo Eltsin annuncia le sue dimissioni anticipate.
Gennaro Sangiuliano scrive che il
“conservatorismo” putiniano è assai diverso dal neo-conservatorismo
liberista statunitense. Infatti per Putin la base della vita politica
della Russia deve essere la tradizione sociale, culturale e religiosa
russa e non un richiamarsi genericamente ai valori liberal-democratici
dell’Occidente.
«Il giorno della Pasqua ortodossa, con tutta la famiglia, è nella cattedrale di Sant’Isacco a San Pietroburgo. Inaugura così una consuetudine che lo vedrà presente, negli anni, a tutte le funzioni religiose. “Se la Russia è diventata grande”, ripete Putin, “non è per uno zar, per una guerra o per un partito politico, il merito è del Cristianesimo”» (G. Sangiuliano, cit., p. 188-189).
La guerra agli oligarchi apolidi e mondialisti
Putin dà questa definizione dell’oligarca: “esponente dell’alta finanza, che vuole influenzare la politica, rimanendo nell’ombra” (G. Sangiuliano, cit., p. 198);
in breve: un appartenente ad una società segreta, che tramite la finanza dirige i politici e il mondo.
I tre nemici di Putin, rappresentati dall’oligarca, sono
- le sette segrete,
- l’alta finanza apolide che cerca il guadagno e la ricchezza come fine e
- il mondialismo che governa il mondo intero tramite lo strapotere della finanza bancaria sulla politica.
Se si legge attentamente il paragrafo
(pp. 198-208) che Sangiuliano riserva agli oligarchi “russi” con i quali
Putin è entrato in conflitto si capisce che essi son quasi tutti di
origine israelitica, e si sono impadroniti – con l’aiuto della malavita
organizzata – dell’industria, dei mass media e delle banche russe per
dominare da dietro le quinte la Russia intera e per farla confluire nel
calderone del Nuovo Ordine Mondiale, diretto dagli Usa e Israele, dalle
banche e dalla massoneria.
La lotta è iniziata nel 1996 ed è finita con la vittoria di Putin nel 2013 senza esclusione di colpi, anche cruenti.
Putin insiste sul fatto che un Paese per
restare in piedi deve riscoprire la propria origine religiosa che in
Russia è cristiana, la quale dà ai cittadini le basi morali per vivere
rettamente. Inoltre non si possono ignorare le proprie tradizioni
culturali e storiche, che per la Russia non sono né atlantiche né
islamiche.
La forza di una Nazione è intellettuale,
morale e spirituale. Essa deve fondarsi su famiglie unite, numerose,
moralmente ordinate e religiose.
Conclusione
Nel disordine mondiale odierno Putin incarna (per quanto l’umana fragilità possa permettere) la forza sana che:
- 1°) resiste alla globalizzazione;
- 2°) ha scongiurato la restaurazione del comunismo in Russia;
- 3°) ha anticipato di un ventennio l’attuale lotta contro l’Isis, avendo stroncato nel 1996 la Cecenia islamica,che avrebbe minacciato la sicurezza non solo russa ma mondiale;
- 4°) combatte la democrazia libertaria occidentale,che dimentica le sue tradizioni culturali e religiose;
- 5°) prevede che essa porterà al crollo dell’Occidente atlantico, poiché ha tagliato (come aveva fatto il bolscevismo nel 1917) le sue radici culturali e religiose e un albero senza radici secca;
- 6°) ha capito,sin dagli anni Settanta,la reale situazione di degrado dell’Urss opposta ad una facciata puramente esteriore di potenza inesistente de facto;
- 7°) capisce molto bene, perciò,oggi che la situazione di grandezza degli Usa/UE è del tutto apparente: la deficienza culturale, morale, spirituale e conseguentemente economico/finanziaria dell’occidente è il cancro che lo ha roso interiormente lasciandone intatta solo l’apparenza:il sistema occidentale è marcio(come quello sovietico nel Settanta) e non reggerà a lungo;
- 8°) ha lottato contro l’alta finanza apolide mondialista, che voleva impossessarsi della Russia, e dà, così, un esempio all’occidente perché capisca qual è il vero nemico delle nazioni e delle patrie;
- 9°) non era desiderato dall’America al potere della Russia poiché avrebbe fatto gli interessi della sua Patria e non del Nuovo Ordine Mondiale, ma al suo fianco sono intervenuti Sacharov, Zinoviev e Solgenitsin (la forza dei veri “intellettuali” che mancano all’occidente che si dibatte tra Charlie e Bataclan) che hanno convinto l’opinione pubblica alla rivolta contro la globalizzazione della Russia;
- 10°) ha tre grandi nemici spietati e potentissimi poiché diabolici: le sette segrete, l’alta finanza apolide e il mondialismo;
- 11°) in breve, per riassumere, Putin insiste sul fatto che un Paese per restare in piedi deve riscoprire la propria origine religiosa, la quale dà ai cittadini le basi morali per vivere rettamente. Infatti non si possono ignorare le proprie tradizioni culturali e storiche, che per la Russia non sono né atlantiche né islamiche, senza conseguenze catastrofiche. La forza di una Nazione è intellettuale, morale e spirituale. Essa deve fondarsi su famiglie unite, numerose, moralmente ordinate e religiose. Queste son le lezioni e gli aiuti che Putin offre al povero mondo contemporaneo ammalato terminale di agnosticismo e amoralismo.
È significativa la frase pronunciata da Putin il 4 dicembre 2105 all’Assemblea Federale Russa:
“La nostra forza è nell’unità, nella combattività. Nell’attaccamento alla famiglia, nello sviluppo demografico, nel progresso della nostra vita interiore”.
d. Curzio Nitoglia
11/1/2016
http://doncurzionitoglia.net/2016/01/11/putin-modus-operandi/
LA STRANA TEOLOGIA DI RATZINGER | ||
da
SISINONO,
Anno XXXV n. 6,
del 31 Marzo 2009
Link a questa pagina
:
http://www.doncurzionitoglia.com/strana_teologia.htm
|
||
La speculazione
teologica di Ratzinger (come dottore privato) è assai vasta e multiforme.
Essa spazia dal primato della coscienza alla patristica, specialmente
agostiniano-bonaventuriana, in funzione anti-scolastica; dalla collegialità
in funzione anti-monarchica nel governo della Chiesa al concetto di libertà
kantianamente inteso; dal dialogo inter-religioso all’escatologia. Ma i due
pilastri fondanti sembrano essere la considerazione del rapporto
cristianesimo-giudaismo e la teologia della storia in San Bonaventura, letta
con un forte accento gioachimita.
1) Radici
ebraiche del cristianesimo secondo Ratzinger
Abbiamo già visto (sì
sì no no 15 marzo 2009, pp.1-6) i rapporti di Ratzinger con la Comunità
Cattolica d’Integrazione (CCI) che datano dal 1972. Nel 1997 l’allora card.
Ratzinger, nell’introduzione al libro qui citato in nota n.1, scriveva:
«L’altro grande tema che acquista sempre più rilievo in ambito teologico è
la questione del rapporto tra Chiesa e Israele. La consapevolezza di una
colpa, a lungo rimossa, che grava sulla coscienza cristiana dopo i terribili
eventi dei dodici funesti anni dal 1933 al 1945, è senza dubbio una delle
ragioni primarie dell’ urgenza con cui tale questione è oggi sentita» .
L’interesse del Nostro per i rapporti tra Chiesa e Israele risale, come dice
lui stesso, al 1947-1948, quando studiava teologia a Monaco sotto la
direzione del professor Gottlieb Sönghen, di cui abbiamo già parlato (sì sì
no no cit.). L’ importanza della “shoah’ nello sviluppo della sua teologia
giudaico-cristiana è fondamentale e risale ai suoi primi venti anni. Onde
erreremmo se volessimo vedere nel suo penchant verso l’olocaustimo ebraico,
una novità, dovuta – magari – alle pressioni delle lobby
giudaico-americaniste o allo scoppiar del “caso Williamson”.
* * *
L’incipit del libro
“Molte religioni un’unica Alleanza” è significativo: «Dopo Auschwitz il
compito della riconciliazione e dell’accoglienza si è presentato davanti a
noi in tutta la sua imprescindibile necessità» . A pagina 14 Ratzinger cita
il testo del Vangelo di San Giovanni (IV, 22) “La salvezza viene dai
giudei”, e lo applica erroneamente ai rapporti tra ebraismo post-biblico e
Cristianesimo. Questa frase di Gesù alla samaritana presso il pozzo di
Giacobbe riguarda, invece, la querelle di quel tempo tra giudei e
samaritani. Questi, infatti, nel 722 a. C. avevano fatto scisma dalla Giudea
ed avevano accolto le usanze e le superstizioni dei Popoli pagani e
politeisti che li avevano invasi, corrompendo la purezza della Fede
abramitica o dell’Antico Testamento per dar luogo ad una falsa religione
sincretistica. Alla domanda della samaritana se la vera Fede sia quella del
Tempio di Gerusalemme o quella dei samaritani che sul monte Garizìm,
riguardato come sacro, celebravano i loro riti, Gesù risponde che nell’
Antica Alleanza la vera Fede è quella dei Giudei (salus ex judaeis) che
adorano Dio in Gerusalemme come Dio stesso aveva prescritto nel Pentateuco,
ma aggiunge anche che si avvicina l’ora [Nuova Alleanza, nda], anzi è già
venuta “in cui si adorerà Dio in spirito e verità” (col sacrificio della
Messa, in tutto il mondo) e allora né su questo monte né in Gerusalemme
adorerete il Padre” [cessazione dell’Antica Alleanza]. Ora, dire che la
salvezza oggi, dopo il Sacrificio di Cristo, viene – come scriveva anche
Léon Bloy – ancora dai Giudei, è oggettivamente falso ed è contrario a ciò
che ha rivelato realmente Gesù nel Vangelo di Giovanni.
Ratzinger, invece,
dopo aver citato Giovanni IV, 22 afferma: «Questa origine [“la salvezza
viene dai giudei”] mantiene vivo il suo valore nel presente» (ivi), anche se
poi aggiunge, contraddicendosi com’è suo costume: «non vi può essere nessun
accesso a Gesù […], senza l’ accettazione credente della rivelazione di Dio
[…], che i cristiani chiamano Antico Testamento» (ivi). La sua frase
precedente, però, dice-va che la salvezza viene ancora oggi dai Giudei, e
non dall’Antico Testamento, il quale non è certamente il cuore del giudaismo
post-biblico, poiché l’ Antico Testamento è tutto relativo a Cristo e quindi
al Nuovo Testamento, che i Giudei di oggi rifiutano ostinatamente come i
loro antenati. Purtroppo tutto il pensiero di Ratzinger è una “coincidentia
oppositorum” e questa è anche l’essenza del modernismo come l’ha descritta
San Pio X nella Pascendi (1907): “leggi una pagina di un libro modernista ed
è cattolica, giri la pagina ed è razionalista”. In Ratzinger ciò avviene
persino passando da una frase a quella successiva.
La conclusione pratica
della teologia giudaico-cristiana, nata dopo la riflessione sulla “shoah” è
– secondo Ratzinger – la seguente: «Ebrei e cristiani debbono accogliersi
reciprocamente in una più profonda riconciliazione, senza nulla togliere
alla loro fede e, tanto meno, senza rinnegarla ma anzi a partire dal fondo
di questa stessa fede. Nella loro reciproca riconciliazione essi dovrebbero
divenire per il mondo una forza di pace. Mediante la loro testimonianza
davanti all’unico Dio…» . Ora, come può un cristiano, che crede nella SS.
Trinità e nella divinità di Cristo, accogliere “a partire dal fondo di
questa stessa fede” l’ebraismo che nega recisamente la SS. Trinità e la
divinità di Cristo? Solo la dialettica hegeliana, la coincidentia
oppositorum cusano-spinoziana lo permettono. Ma la retta ragione, il
principio per sé noto di identità e non contraddizione ed inoltre la divina
Rivelazione lo negano.
* * *
Per quanto riguarda i
rapporti tra Antica e Nuova Alleanza, le cose si complicano. Infatti
Ratzinger scrive che il termine “Testamentum” (Testamento), usato
dall’antica versione latina e reso poi da San Girolamo con “foedus” o
“pactum” (Alleanza o Patto), non è stata una scelta propriamente corretta
per tradurre la parola ebraica berìt. I traduttori greci della Bibbia
ebraica (traduzione dei Settanta) l’hanno resa, infatti, quasi sempre (267
passi su 287) non con l’equivalente greco di “patto” o “alleanza”
(syn-theke), ma bensì con il termine dia-theke, che vuol dire non “un
accordo reciproco” , ma «una disposizione in cui non sono due volontà a
mettersi d’ accordo, ma vi è una volontà che stabilisce un ordinamento» .
Sembrerebbe cosa di poco conto. Invece Ratzinger, a partire da questa
distinzione, arriva – come vedremo – a formulare la teoria che l’Antica
Alleanza non è mai cessata: poiché berìt, reso con Alleanza in latino,
significa solo volontà divina e non comporta la corrispondenza umana, Dio ha
mantenuto l’Alleanza con Israele, anche se questo è stato infedele.
Ratzinger, infatti, scrive: «Ciò che noi chiamiamo “Alleanza”, nella Bibbia,
non è concepito come un rapporto simmetrico tra due partner che stabiliscono
tra loro una relazione contrattuale paritetica con obblighi e sanzioni
reciproche. […] l’’ “alleanza” non è un contratto che impegna a un rapporto
di reciprocità, ma un dono, un atto creativo dell’amore di Dio» . E cita San
Paolo (2 Cor. III, 4-18 e Gal. IV, 21-31 ), nel quale si trova la
«contrapposizione più netta tra i due Testamenti» , mentre, quando parla di
Alleanza (Ebr., XIII, 20), usa il termine di «alleanza “eonica” , cioè
eterna, con una terminologia che è ripresa dal Canone romano [della Messa]»
. Ratzinger specifica che, se San Paolo nella seconda lettera ai Corinzi
«pone in netta antitesi l’Alleanza instaurata da Cristo e quella di Mosè»,
le cose vanno diversamente tra Abramo e Cristo. Infatti «nel nono capitolo
della lettera ai Romani» San Paolo utilizza non più il termine Patto o
Testamento, ma Alleanza al plurale e Ratzinger commenta: «l’Antico
Testamento conosce tre alleanze: il sabato, l’ arcobaleno, la circoncisione
[…]. L’ alleanza con Abramo [San Paolo] la vede come l’alleanza vera e
propria, fondamentale e permanente, mentre quella con Mosè “è sopraggiunta
in seguito” (Rm., V, 20), 430 anni dopo quella con Abramo (Gal.3,17) e non
ha affatto privato quest’ultima del suo valore» . Quindi il Patto o il
Testamento stipulato da Dio con Mosè (1330 a. C.) è transitorio e non
eterno, mentre l’Alleanza stipulata con Abramo (1900 a. C.) è permanente ed
eterna! Perciò l’Antica Alleanza con Abramo sussiste ancora, non è mai
cessata. Ma – osserviamo – quando gli ebrei increduli asseriscono di avere
per padre Abramo, Gesù risponde loro che Abramo lo è solo carnalmente,
poiché egli credeva nel Messia venturo, mentre loro lo vogliono uccidere,
quindi il loro padre spirituale è il diavolo (Gv., VIII, 42) e aggiunge:
“Chi è da Dio ascolta le parole di Dio; ecco perché voi non le ascoltate:
perché non siete da Dio” (Gv.VIII, 47). Ora come conciliare la Rivelazione
del Vangelo di san Giovanni con l’ interpretazione ratzingeriana, secondo la
quale Abramo sarebbe tuttora padre degli increduli ebrei post-biblici,
dacché l’Alleanza stipulata da Dio con lui è eterna? Certo, si può
rispondere che essa è eterna nel momento in cui è vissuta nella Fede di
Abramo nel Messia Gesù Cristo, onde l’Alleanza con Abramo continua in quella
Nuova ed eterna, a cui era finalizzata, ed è perfezionata e realizzata da
questa nel Sangue di Cristo. Ma gli ebrei post-biblici, che rifiutano Cristo
Dio e la SS. Trinità, non sono in Alleanza né con Abramo né con Dio, come
afferma Gesù nel Vangelo di San Giovanni. Ratzinger, però, asserisce il
contrario: «con questa distinzione [tra alleanza abramitica e alleanza
mosaica] viene meno la rigida contrapposizione tra Antica e Nuova Alleanza e
si esplicita l’unità […] della storia della salvezza, in cui nelle diverse
alleanze si realizza l’unica Alleanza» , onde l’ebraismo odierno, benché
incredulo, sarebbe tuttora in Alleanza eterna con Dio tramite Abramo (e non
Mosè). Ma anche ciò è falso, benché Ratzinger cerchi – distinguendo tra Mosè
ed Abramo – di dare un fondamento più solido alla teoria di Giovanni Paolo
II dell’«Antica Alleanza mai revocata» (Mainz, 1981).
* * *
Da notare che per
Ratzinger non solo l’alleanza di Dio con gli israeliti in Abramo, ma anche
l’alleanza di Dio con tutti gli uomini in Gesù Cristo è “incondizionata”
cioè non “legata alla condotta degli uomini” perché “Dio, per la sua stessa
essenza, non può lasciar cadere l’alleanza, per quanto essa venga rotta” e
perciò dinanzi all’infedeltà degli israeliti, così come dinanzi
all’infedeltà dei “cristiani, Egli la “rinnova” nel senso che “l’alleanza
condizionata, che dipende dalla fedeltà dell’uomo alla Legge e che per
questo è stata spezzata, viene sostituita dall’alleanza incon-dizionata in
cui Dio s’impegna irrevocabilmente”. Questo “rinnovamento dell’ alleanza” è,
per i Cristiani, la S. Messa.
“Deus non deserit nisi
prius deseratur” (“Dio non abbandona, se prima non è abbandonato”) dice
Sant’ Agostino, ripreso dal Concilio di Trento. Anche la Nuova ed Eterna
Alleanza (come già l’Alleanza abramitica) è un patto bilaterale
condizionato. Essa è eterna ed irrevocabile solo con la Chiesa di Roma; ma
non con ogni uomo: i doni di Dio “sono irrevocabili” a condi-zione che
l’uomo Gli resti fedele. Per Fede sappiamo che “le porte dell’Inferno non
prevarranno” contro la Chiesa; ma nessun uomo sa “se sia degno di odio o di
amore”, ossia la perseveranza finale è qualcosa che non è garantita a nessun
uomo in particolare: se rompe con Dio, egli è abbandonato da Dio. La Chiesa
soltanto, nata dal costato di Cristo, ha la promessa formale dell’
indefettibilità e della perseveranza usque ad finem, in vir-tù del Sangue di
Cristo, ma non ha questa promessa Israele in virtù dei meriti di Abramo.
In realtà, Ratzinger
(come dottore privato) fonda, purtroppo, la sua distinzione su Martin
Lutero. Infatti, per lui, la nuova ed eterna alleanza “risulta nuova”
appunto perché “non si tratta di un patto a certe condizioni, ma del dono
dell’ amicizia [di Dio] che viene irrevocabilmente offerta. Al posto della
Legge subentra la grazia. La riscoperta della teologia paolina nella Riforma
[luterana] ha posto particolarmente l’accento su questo aspetto: non le
opere ma la fede; non ciò che l’uomo fa, ma il libero disporre della bontà
di Dio. […]. Le espressioni riferite all’ esclusività dell’azione di Dio,
vale a dire quelle contenente l’aggettivo solus (solus Deus, solus
Christus), sono da intendersi in questo contesto” . Peccato, però, che san
Giacomo ha scritto, sotto divina ispirazione: “la Fede senza le Opere è
morta” (II, 26) e che il concilio di Trento ha definito questa verità de
Fide catholica! (Sess. VI, cc. 6-7). La “teologia” di Lutero è la negazione
e la distruzione della vera Religione (da religare ossia unire l’uomo a
Dio), dacché Lutero diceva “pecca fortiter, sed fortius crede”, ma il
peccato separa da Dio e non unisce a Lui. La “speranza sfiduciale” luterana
è la “presunzione di salvarsi senza meriti”, che porta all’«impenitenza
finale» ed è un “peccato contro lo Spirito Santo”. San Paolo non ha mai
voluto insegnare l’inutilità delle “Opere buone” (ossia osservare i 10
Comandamenti), anzi insegna che la carità o stato di grazia è conditio sine
qua non per entrare in Cielo: “se avessi la Fede che sposta le montagne, ma
non ho la carità sono un nulla” (1 Cor., 13, 2). L’Apostolo, quando insegna
che la giustificazione non si consegue con le opere della Legge, ma per la
fede in Cristo (cfr. Gal. 2,3), parla non della Legge divina, ma delle
osservanze rituali, delle prescrizioni legali e cerimoniali della
legislazione mosaica, riservate al popolo ebreo per prepararlo a Cristo
(“pedagogo a Cristo”), ma per le quali il fariseismo imperante si lusingava
di poter raggiungere la salvezza senza la fede in Cristo e senza la Sua
grazia.
* * *
Tutta la teologia
ratzingeriana è un tentativo di conciliare l’ inconciliabile nell’ottica
cusana della coincidentia oppositorum; metaforicamente essa è l’ossimoro o
l’ircocervo di Pera e Croce (v. sì sì no no 15 marzo 2009) e le “convergenze
parallele” di Aldo Moro. Infatti nella parte finale del suo libro Ratzinger
cita esattamente il De pace Fidei di Niccolò da Cusa (1453), in cui «Cristo
come logos universale [cfr. il “cristo cosmico” di Teilhard de Chardin, nda]
convoca un concilio celeste [cfr. il concilio Vaticano II, nda] , perché lo
scandalo della molteplicità delle religioni sulla terra è divenuto
intollerabile» .
Lo stesso Ratzinger
spiega che il cammino del movimento ecumenico cominciò nel XIX presso i
protestanti, poi vi si avvicinò l’ortodossia e infine «l’avvicinamento della
Chiesa cattolica cominciò da alcuni gruppi di Paesi in cui si soffriva
maggiormente la divisione tra le Chiese, finché il concilio Vaticano II aprì
le porte della Chiesa alla ricerca dell’unità di tutti i cristiani» . Onde,
per Ratzinger (1997) – oggettivamente – tra Concilio e Tradizione non vi è
continuità, ma rottura, anche se – soggettivamente o ermeneuticamente –
Benedetto XVI (2005) ce la vuol vedere.
Come si evince da
quanto sopra, la teologia del giudeo-cristianesimo è congenere a Ratzinger e
a Benedetto XVI (come dottore privato). Per capire la sua reazione davanti
alla montatura del “caso Williamson” non si deve guardare alla persona del
monsignore “incriminato”, ma alla dottrina giudaizzante del Pontefice
modernizzante. Ci sembra, pertanto, inutile, se non pericoloso, andare a
dialogare con lui (o chi per lui) e a tal fine “gettare a mare Giona”.
2)
Teologia della storia e gioachimismo in Ratzinger
Sempre con lo stesso
professore Sönghen il giovane Ratzinger fece la sua Tesi di laurea su san
Bonaventura (che era di Viterbo e non di “Fiuggi”) nel 1956-1957, appena
dieci anni dopo la svolta di Auschwitz, tesi in cui appare la sua concezione
di Dio e del dogma, considerati non oggettivamente, ma storicamente e
soggettivamente e per di più visti (cfr. sì sì no no cit.) in un’ottica
tendenzialmente e moderatamente millenarista. Questa tesi è stata rieditata
dalle Edizioni Porziuncola sotto il titolo San Bonaventura /La teologia
della storia.
Secondo il Nostro, San
Bonaventura studia Gioacchino da Fiore come Generale dell’Ordine
francescano, “che era quasi giunto al suo punto di rottura a causa della
questione gioachimita”, più che come teologo privato, ma, nonostante ciò,
«Gioacchino viene interpretato all’ interno della tradizione, mentre i
gioachimiti lo interpretarono contro la tradizione. Bonaventura non rifiuta
totalmente Gioacchino (come aveva fatto Tommaso): egli lo interpreta
piuttosto in modo ecclesiale, creando così un’alternativa ai gioachimiti
radicali» . Come si vede l’ idea della “ermeneutica della continuità” è
congenere anch’essa al giovane e al vecchio Ratzinger (1956-2005). Ratzinger
riconosce che «l’ idea di un nuovo ordine, in cui l’ ecclesia contemplativa
degli ultimi tempi deve trovare la sua vera e definitiva forma d’esistenza,
viene chiaramente espressa in Gioacchino da Fiore. Il concetto di “ordine”
acquista così un nuovo significato e “novus ordo” […] potrebbe tradursi
allora come “nuovo ordine salvifico” e “nuovo ordine religioso della
società”. […] Si potrebbe forse rendere “novus ordo” persino come “nuovo
popolo di Dio”» . Insomma se San Tommaso ha confutato radicalmente la
teologia della storia di Gioacchino, «il Dottor Serafico [ha, secondo
Ratzinger] un atteggiamento più positivo nei confronti della teologia
gioachimita della storia» .
Confutazione tomistica del Gioachimismo
San Tommaso d’Aquino
confuta meglio di ogni altro gli errori millenaristi e tendenzialmente
giudaizzanti di Gioacchino e della sua scuola. Nella Somma Teologica
dimostra che la Nuova Alleanza durerà sino alla fine del mondo (S. Th.,
I-II, q. 106, a. 4). Infatti, la Nuova Alleanza è succeduta alla Vecchia,
come il più perfetto al meno perfetto. Ora, nello stato della vita umana in
questo mondo, nulla può essere più perfetto di Cristo e della Nuova Legge,
poiché qualcosa è perfetto in quanto si avvicina al suo fine. Ora, Cristo ci
introduce – grazie alla sua Incarnazione e morte – in Cielo. Quindi, non vi
può essere – su questa terra – nulla di più per-fetto di Gesù e della sua
Chiesa.
Per quanto riguarda lo
Spirito Santo come perfezionatore dell’ opera della Redenzione di Cristo,
Esso è inviato proprio da Cristo per confessare Cristo stesso, che ha
promesso formalmente ai suoi Apostoli: “Lo Spirito Santo che Io vi manderò,
procedendo dal Padre, renderà testimonianza di Me”. Quindi il Paraclito non
è l’iniziatore di una terza èra, come vorrebbe il gioachimismo, ma
testimonia e spiega Cristo agli uomini e li rafforza per poterlo imitare.
Onde, dopo l’Antica e la Nuova Legge, su questa terra non vi sarà una terza
Alleanza, ma il terzo stato sarà quello dell’eternità, sempre felice del
Cielo o sempre infelice nell’ Inferno. Gioacchino erra nel trasportare la
realtà ultramondana o eterna su questa terra. Il Regno, di cui parla l’abate
da Fiore, non riguarda questo mondo, ma l’aldilà. Infatti lo Spirito Santo
ha spiegato agli Apostoli, (il giorno di Pentecoste del 33 d.C.) tutta la
verità che Cristo aveva predicato e che loro non avevano ancora capito
appieno. Il Paraclito non deve insegnare una nuovissima Legge o un altro
Vangelo più spirituale di quello di Cristo, ma deve solo illuminare e dar
forza per ben conoscere e ben vivere la dottrina cristiana, che ha
perfezionata quella mosaica (S. Th., I-II, q. 106, a. 4). Inoltre come la
Vecchia Legge non fu solo del Padre, ma anche del Figlio (prefigurato da
Mosè); così pure la Nuova Legge non fu solo del Figlio, ma anche dello
Spirito promesso e inviato da Cristo ai suoi Apostoli. La Legge di Cristo
scritta nei nostri cuori (Geremia) è la Grazia dello Spirito Santo, che
illumina, vivifica e irrobustisce per potere osservare la Legge divina. Così
come già nell’Antico Testamento era la grazia dello Spirito Santo ad
illuminare e corroborare i Patriarchi e i Profeti, i quali, pur vivendo
sotto la Vecchia Legge, avevano già lo spirito della Nuova e la vivevano
eroicamente.
Quando Gesù insegna
agli Apostoli che “Il Regno dei Cieli è vicino”, non si riferisce – spiega
san Tommaso – solo alla distruzione di Gerusalemme come termine definitivo
della Vecchia Alleanza e inizio formale della Nuova, ma anche alla fine del
mondo (S. Th., I-II, q. 6, a. 4, ad 4; III, q. 34, a. 1, ad 1; III, q. 7, a.
4, ad 3-4). Infatti il Vangelo di Cristo è la “Buona Novella” del Regno
(ancora imperfetto) della ‘Chiesa militante’ su questa terra; e del Regno
(oramai e per sempre perfetto) della “Chiesa trionfante” nei Cieli. Inoltre,
nel Commento a Matteo sul discorso escatologico di Gesù (XXIV, 36), san
Tommaso postilla: “Qualcuno potrebbe credere che questo discorso di Cristo,
riguardi solo la fine di Gerusalemme…; però sarebbe un grosso errore
riferire tutto quanto è stato detto solo alla distruzione della Città santa
e quindi la spiegazione è diversa, … cioè che tutti gli uomini e i fedeli in
Cristo sono una sola generazione e che il genere umano e la fede cristiana
durerà sino alla fine del mondo” (Expos. In Matth. c. XXIV, 34). L’ Angelico
si basa su tale testo per confutare l’errore gioachimita, secondo il quale
la Nuova Alleanza o la Chiesa di Cristo non durerà sino alla fine di tempi;
egli riprende l’insegnamento patristico (specialmente del Crisostomo e di s.
Gregorio Magno) e lo sviluppa anche nella Somma Teologica (I-II, q. 106, a.
4, sed contra): il Cristianesimo durerà sino alla fine del mondo, e perciò
non ci sarà bisogno di una “terza Alleanza pneumatica e universale”
(Catolikòs), ma la Chiesa di Cristo è già il Regno del Padre e del Figlio e
dello Spirito Santo (con buona pace di Gioacchino e seguaci).
Non occorre sognare il
rimpiazzamento del cristianesimo, basta solo viverlo sempre più intensamente
.
da
SISINONO,
Anno XXXV n. 6,
del 31 Marzo 2009
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