Il documento finale ricorre a un
artificio per salvare la faccia dottrinale, non credo in una
composizione teologica significativa
di Alessandro Gnocchi
Sarà pure il sinodo a essere “mala
bestia” pari al senato della Roma d’un tempo. In ogni caso, quanto a
dottrina cattolica, riesce difficile dare etichetta di “boni viri” a un
buon numero di padri sinodali, come Cicerone poteva fare invece con i
suoi senatori. Non sono “boni” quei “viri” sinodali che, riuniti per
parlare della famiglia, hanno pensato, scritto e proclamato al mondo,
gaudium magnum, tutta la virulenza rivoluzionaria dell’ormai celebre
“Relatio post disceptationem”. Comunque ora la “Relatio” venga emendata,
attenuata, purificata, rimane il fatto che vescovi e cardinali di Santa
Romana Chiesa abbiano potuto mettere nero su bianco un programma di
desistenza alle voglie del mondo capace di sorprendere persino la stampa
volterriana e quella cattolaicista.
Prima o poi, doveva venire in superficie
quello scisma sommerso di cui tanti bravi cattolici, per amore della
chiesa, stentavano ancora a parlare. La spericolata operazione dei
presunti “boni viri” sinodali ha quanto meno il pregio involontario di
fare chiarezza. Se, in un’assemblea come il Sinodo sulla famiglia, alla
presenza del papa, vengono prodotti documenti in cui si certificano semi
di santificazione in ogni genere di peccato in materia sessuale, sorge
il fondato sospetto che le chiese radunate in quella santa assise siano
almeno due. Passati per le maglie magari un po’ strette dell’evangelico
“sì sì, no no”, tesi, argomentazioni e programmi si mostrano sempre per
quello che sono, cattolici o non cattolici, compatibili o incompatibili
con il deposito della fede.
Seppure nella “Relatio Synodi” finale e
nella discussione che durerà fino al “Sinodo ordinario” del prossimo
ottobre si ricorra all’artificio di salvare la dottrina dedicandosi a
“scelte pastorali coraggiose”, rimangono i fatti. Rimane l’evidenza che
chi intende mutare la pastorale ha già mutato la dottrina, poiché non è
dato di immaginare una prassi sganciata dalla teoria. E i rivoluzionari,
che di prassi se ne intendono, lo sanno bene. In tutta parresia, i
cosiddetti “boni viri” che hanno redatto la “Relatio” di medio termine
difficilmente posso affermare con San Paolo “tradidi quod et accepi”.
Non stanno trasmettendo al loro gregge ciò che, viste le date di
nascita, hanno ricevuto.
Ma, a questo punto, non regge neanche il
tentativo di instillare nel popolo di Dio, che è pecora e non bue,
l’ermeneutica delle convergenze teologiche parallele. Diventa grottesco
dipingere un orbe cattolico in cui vescovi e cardinali litigano con
vescovi e cardinali solo perché non si sono chiariti su certi termini e,
alla fine, ciascuno troverà la sua collocazione sotto il misericordioso
cupolone della nuova chiesa di papa Francesco. I rivoluzionari non sono
anarchici barbuti che hanno esaurito il loro compito una volta gettata
la bomba sulla carrozza del re. Sono intellettuali freddi e pazienti
consapevoli che, se non è possibile l’immediata presa del palazzo, è
buona anche la semina del piccolo germe da cui sorgerà a suo tempo
l’alba radiosa.
In tale temperie, l’unica ermeneutica
possibile è quella forse un po’ brutale applicata con frutto da Domenico
Giuliotti nel ribollire modernista che chiamava “L’ora di Barabba”,
pullulante di “sottane di preti, infrittellate di razionalismo, che
forse volevan diventare ‘pantaloni ecclesiastici’ evitando la sartoria
protestante” e “finirono tra i panni sudici”. In quell’ora
rivoluzionaria, pallido presagio di quanto è dato vedere oggi, il gran
fustigatore del tiepidume cattomondano diceva: “Ciò che non è
assolutamente cristiano, vale a dire assolutamente cattolico, è
assolutamente brutto, ingiusto, falso, sporco. Non indulgo a mezze
tinte. O bianco o nero, o sì o no. Chi dice: forse mi ripugna”.
Le “scelte pastorali coraggiose”
invocate dai novatori sono figlie della dottrina delle “mezze tinte” e
di quel “forse” che inquietavano Giuliotti. Solo tre parole, “scelte
pastorali coraggiose”, che son ben di più di un prologo alla sequela di
casi su cui necessiterebbe un nuovo e più misericordioso sguardo.
Portano nel cuore una sorta di liberatoria ribellione contro la presunta
ingiustizia di un Dio che ha voluto il mondo così com’è. E non c’è
piazza migliore di quella intitolata alle libertà sessuali per dare
corpo a tale rivolta. Nel fluviale e labirintico romanzo “Gli strumenti
delle tenebre”, Anthony Burgess fa invocare al protagonista, lo
scrittore omosessuale Kenneth Marchal Toomey, una “trasformazione del
cristianesimo” in cui “i due dèi si fondessero in uno. Il Dio che mi
creò malato e il Dio che mi ordina di essere sano. (…) Il Dio della mia
natura e il Dio della mia moralità ortodossa”.
Fatta salva la grana letteraria non
proprio fina, potrebbe averlo scritto Marchal Toomey che “Le persone
omosessuali hanno doti e qualità da offrire alla comunità cristiana”.
Ancora lui potrebbe essersi chiesto “Siamo in grado di accogliere queste
persone, garantendo loro uno spazio di fraternità nelle nostre
comunità?”. Invece, sono parole di vescovi e cardinali a cui non si può
perdonare l’uso equivoco del concetto di natura comprensibile nell’urlo
senza risposta di un romanziere omosessuale. L’essenza dell’uomo, la
natura, precede la persona, ha vincoli e doveri che sopravanzano i
diritti dell’individuo, non dipende dalle pulsioni dell’istinto ma da
regole razionali che presiedono anche la moralità. Non è invocando
l’accordo tra due dèi diversi ed entrambi malvagi, uno della legge e
l’altro degli istinti, che l’uomo trova la propria unità. Qualunque sia
la sua condizione, l’uomo trova quiete solo riconoscendo la saggezza
dell’unico Dio, buono e ragionevole, in cui tutto ha origine e
compimento.
Quello del personaggio creato da Burgess
non è un equivoco nuovo sotto cielo cristiano. Nel IV secolo Evagrio
Pontico diceva nel “De diversis malignis cogitationibus” che “il
pensiero demoniaco acceca l’occhio sinistro dell’anima, quello che si
dedica alla contemplazione del creato”. Questo, aggiungeva negli
“Scholia in Psalmos”, produce una “errata conoscenza della cose stesse o
della loro contemplazione, e l’accusa al Creatore di essere ingiusto e
non sapiente”. Dunque, toccherebbe all’uomo porre rimedio a una
creazione imperfetta attraverso atti misericordiosi che sanino le ferite
provocate da una legge dura e ingiusta che condanna invece di salvare.
E’ la buona novella del “Chi sono io per
giudicare?”, dell’ospedale da campo in cui i medici non vanno per il
sottile, del pascolo in cui il pastore si accontenta di avere lo stesso
odore delle pecore. E’ la chiesa che, in nome di papa Francesco e senza
mai essere smentita, durante il Sinodo sulla famiglia ha portato in luce
la spaccatura che pietosamente per decenni era stata celata. Una chiesa
che fa tremare pensando al momento del “Roma locuta”.
Pur gradita al mondo, una chiesa simile
difficilmente potrà sanarne le ferite poiché nasconde l’origine della
malattia, il peccato. Tolta l’impellenza della conversione e della
rinuncia a satana, l’uno e l’altra finiscono per incontrasi in un
accidioso convivio sotto il segno del demone meridiano, quel sortilegio
in cui si vive solo per compiacersi del proprio malessere. Ma non è
colpa del mondo, povera preda di un male che solo l’incisione affilata e
incandescente del verbo cristiano sapeva curare chiamandolo con il suo
nome. Nella guerra che la chiesa gli muoveva per la sua salvezza,
trovava almeno una vena di linfa vitale. Ora, nella pace, non la scorge
più, eppure ne ha sete, molto più che della misericordiosa
condiscendenza. Ma il cristianesimo mondano, quello delle “scelte
pastorali coraggiose” non ha più di questa acqua. Così il secolo, che
coltiva nel suo intimo il desiderio di sentirsi peccatore pur negando
l’idea del peccato, si trova smarrito davanti a cristiani che non si
sentono peccatori perché quell’idea l’hanno dimenticata.
La voglia matta di mondo che oggi non
esita a mostrarsi anche nei sacri consessi ha cominciato a fiorire nei
giardini segreti delle anime quando i cristiani hanno preso a coltivare i
fiori malati dei piccoli reati contro Dio e li hanno concimati con il
compiacimento per la propria fragilità. “Quelli che commettono spesso
peccati leggeri” ammoniva San Gregorio Magno “non devono considerare la
qualità dei loro peccati, ma la loro quantità. Se non li impensierisce
la gravità, li spaventerà il numero. (…) chi trascura di piangere e
schivare i peccati leggeri cadrà non già di colpo, ma un po’ alla volta,
dallo stato di giustizia a quello mortale”.
Il calendario liturgico è un rosario
fiorito di santi che hanno fatto della loro vita la lotta anche alla più
piccole delle offese a Dio. Fin sul limitare degli Anni Sessanta del
secolo scorso, la vita ascetica del fedele ordinario aveva a modello
esempi come San Domenico Savio, che avrebbe preferito morire piuttosto
che macchiarsi di una sola colpa lieve. La formazione spirituale era
fondata sull’alternativa radicale tra salvezza e dannazione eterne e
generava pensieri, parole e opere che oggi il mondo vorrebbe tanto
ammirare nei cristiani che, invece, ne sono atterriti. Pensieri, parole e
opere, per esempio, come quelli che Sant’Ambrogio depose nell’eloquente
“De bono mortis”, il bene della morte: “E l’Ecclesiate dice ancora ‘il
mio cuore è andato in giro affinché io potessi conoscere la gioia
dell’empio e considerassi e cercassi la sapienza e la moderazione, e
conoscessi la felicità attraverso il comando, nonché i travagli e gli
avvilimenti, e conobbi questa felicità come più amara della morte’:
questo non perché la morte sia in sé amara, ma poiché lo è per l’empio.
E’ infatti peggio vivere per il peccato che morire nel peccato, poiché
quanto più a lungo l’empio vive, tanto più aumenterà il suo peccato, ma
se muore cessa di peccare”.
Generazioni di cristiani si sono formate
lungo i secoli su questo tema ascetico. Nobili destinati allo splendore
delle corti e capaci di portare i cilici sotto vesti da fiaba,
contadini, operai e mendici a cui facevano da cilicio i panni e la
fatica quotidiani. Tutti animati dallo stesso fervore, segnati dalla
stessa luce catturata negli interni del Caravaggio, nel sorriso delle
Madonne di Raffaello, nell’immobilità delle scene di Piero della
Francesca, negli azzurri di Giotto o negli ori di certe icone dipinte
nelle aurore russe. Ma anche il più spirituale dei capolavori, riesce a
descrivere solo in piccola parte ciò che il fervore e la purezza
producono nelle creature. “Primieramente” scrive Pietro Giacomo Bacci
nella biografia di San Filippo Neri “il verginal candore era tale che
gli risplendeva anche nel volto, ed in particolare negli occhi: i quali
aveva eziandio negli ultimi anni della sua vita, come di giovanetto,
così chiari e risplendenti, che non si è trovato mai pittore che gli
abbia mai potuti ben esprimere con il pennello, ancorché molti con ogni
diligenza vi abbiano provato; non si poteva in oltre così facilmente
fissar la vista nella sua faccia; avvegnacché se gli vedeva uscir dagli
occhi come una luce che ripercoteva negli occhi di chi lo mirava; sicché
alcuni han detto che solamente in guardarlo sembrava un angelo di
paradiso”.
Quando usavano ancora dire il buon
breviario, i cattolici davano forma liturgica alla necessità di porsi al
rifugio dalle colpe anche veniali negli splendidi inni risalenti
all’epoca ambrosiana. A ciascuna ora canonica il suo, a seconda di ciò
travaglia le anime in quel frangente della giornata. “Lingua refrénans
témpert” recita la seconda strofa dell’ora Prima, quando l’astro del
giorno è già sorto, “Ne litis horror ínsonet: visum fovéndo cóntegat, ne
vanitátes háuriat”, Dio moderi e freni la lingua, affinché non risuoni
l’orrore delle liti, custodisca e contenga lo sguardo perché non
raccolga alcuna vanità. E a Compieta, subito dopo l’esame di coscienza e
il “Confiteor” in cui chiede perdono a Dio onnipotente, alla beata
Maria sempre Vergine, a San Michele Arcangelo, a San Giovanni Battista,
ai santi apostoli Pietro e Paolo, a tutti i santi e fino all’ultimo dei
fratelli, l’orante invoca il soccorso divino in vista del sonno: “Procul
recédant somnia, et nóctium phantásmata; hostémque nostrum cómprime, ne
polluántur córpora”, fuggano lontano da noi i sogni e i fantasmi della
notte, reprimi il nostro nemico affinché il nostro corpo non sia
macchiato.
Il cristiano che spia lussuriosamente il
mondo, invece, ha finito per convincersi che la fede non sia vera se
non si accompagna al dubbio. Un credente autentico, insegnano i pastori
che si riconoscono nelle nuove aperture sinodali, deve assaporare dentro
di sé l’esistenza dell’ateo: per essere santi bisogna essere anche
grandi peccatori. Così, il peccato viene presentato in una nuova e
“coraggiosa” valutazione pastorale, assume il nome malaticcio e
fascinoso di “fragilità”, scava nelle anime, si fa coccolare e
monopolizza la vita e il pensiero, la prassi e la dottrina.
In tal modo, il cerchio si chiude su un
panorama in cui fede e ragione hanno intrinsecamente bisogno del
negativo: l’errore diventa un valore per la gnoselogia, l’eresia per la
dottrina, il peccato per la morale. Non è un caso se uno dei personaggi
più luminosi della letteratura come la Lucia dei “Promessi sposi”,
esemplare incarnazione letteraria del fervore, è divenuta
incomprensibile ai cattolici contemporanei. C.S. Lewis aveva previsto
tale esito nelle “Lettere di Berlicche”. Era solo il 1942 quando narrava
le istruzioni del diavolo Berlicche al nipote Malacoda, comandato a
pilotare la perdizione di un neoconvertito: “In una settimana o due gli
metterai il dubbio che forse nei primi giorni della sua vita cristiana
egli era un pochino eccessivo. Parlagli della ‘moderazione in tutto’. Se
ti riuscirà di condurlo al punto di pensare che ‘la religione, sì, va
bene, ma fino a un certo punto’, potrai sentirti felicissimo nei
riguardi della sua anima. Per noi una religione moderata vale quanto una
religione nulla, ed è più divertente”.
Ma Berlicche e Malacoda, appunto, non erano padri sinodali.
.
fonte: Il Foglio, 21 ottobre 2014
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