martedì 21 ottobre 2014

Contro i Sinodali





Il documento finale ricorre a un artificio per salvare la faccia dottrinale, non credo in una composizione teologica significativa
di Alessandro Gnocchi

 Sarà pure il sinodo a essere “mala bestia” pari al senato della Roma d’un tempo. In ogni caso, quanto a dottrina cattolica, riesce difficile dare etichetta di “boni viri” a un buon numero di padri sinodali, come Cicerone poteva fare invece con i suoi senatori. Non sono “boni” quei “viri” sinodali che, riuniti per parlare della famiglia, hanno pensato, scritto e proclamato al mondo, gaudium magnum, tutta la virulenza rivoluzionaria dell’ormai celebre “Relatio post disceptationem”. Comunque ora la “Relatio” venga emendata, attenuata, purificata, rimane il fatto che vescovi e cardinali di Santa Romana Chiesa abbiano potuto mettere nero su bianco un programma di desistenza alle voglie del mondo capace di sorprendere persino la stampa volterriana e quella cattolaicista.
Prima o poi, doveva venire in superficie quello scisma sommerso di cui tanti bravi cattolici, per amore della chiesa, stentavano ancora a parlare. La spericolata operazione dei presunti “boni viri” sinodali ha quanto meno il pregio involontario di fare chiarezza. Se, in un’assemblea come il Sinodo sulla famiglia, alla presenza del papa, vengono prodotti documenti in cui si certificano semi di santificazione in ogni genere di peccato in materia sessuale, sorge il fondato sospetto che le chiese radunate in quella santa assise siano almeno due. Passati per le maglie magari un po’ strette dell’evangelico “sì sì, no no”, tesi, argomentazioni e programmi si mostrano sempre per quello che sono, cattolici o non cattolici, compatibili o incompatibili con il deposito della fede.
Seppure nella “Relatio Synodi” finale e nella discussione che durerà fino al “Sinodo ordinario” del prossimo ottobre si ricorra all’artificio di salvare la dottrina dedicandosi a “scelte pastorali coraggiose”, rimangono i fatti. Rimane l’evidenza che chi intende mutare la pastorale ha già mutato la dottrina, poiché non è dato di immaginare una prassi sganciata dalla teoria. E i rivoluzionari, che di prassi se ne intendono, lo sanno bene. In tutta parresia, i cosiddetti “boni viri” che hanno redatto la “Relatio” di medio termine difficilmente posso affermare con San Paolo “tradidi quod et accepi”. Non stanno trasmettendo al loro gregge ciò che, viste le date di nascita, hanno ricevuto.
Ma, a questo punto, non regge neanche il tentativo di instillare nel popolo di Dio, che è pecora e non bue, l’ermeneutica delle convergenze teologiche parallele. Diventa grottesco dipingere un orbe cattolico in cui vescovi e cardinali litigano con vescovi e cardinali solo perché non si sono chiariti su certi termini e, alla fine, ciascuno troverà la sua collocazione sotto il misericordioso cupolone della nuova chiesa di papa Francesco. I rivoluzionari non sono anarchici barbuti che hanno esaurito il loro compito una volta gettata la bomba sulla carrozza del re. Sono intellettuali freddi e pazienti consapevoli che, se non è possibile l’immediata presa del palazzo, è buona anche la semina del piccolo germe da cui sorgerà a suo tempo l’alba radiosa.
 In tale temperie, l’unica ermeneutica possibile è quella forse un po’ brutale applicata con frutto da Domenico Giuliotti nel ribollire modernista che chiamava “L’ora di Barabba”, pullulante di “sottane di preti, infrittellate di razionalismo, che forse volevan diventare ‘pantaloni ecclesiastici’ evitando la sartoria protestante” e “finirono tra i panni sudici”. In quell’ora rivoluzionaria, pallido presagio di quanto è dato vedere oggi, il gran fustigatore del tiepidume cattomondano diceva: “Ciò che non è assolutamente cristiano, vale a dire assolutamente cattolico, è assolutamente brutto, ingiusto, falso, sporco. Non indulgo a mezze tinte. O bianco o nero, o sì o no. Chi dice: forse mi ripugna”.
Le “scelte pastorali coraggiose” invocate dai novatori sono figlie della dottrina delle “mezze tinte” e di quel “forse” che inquietavano Giuliotti. Solo tre parole, “scelte pastorali coraggiose”, che son ben di più di un prologo alla sequela di casi su cui necessiterebbe un nuovo e più misericordioso sguardo. Portano nel cuore una sorta di liberatoria ribellione contro la presunta ingiustizia di un Dio che ha voluto il mondo così com’è. E non c’è piazza migliore di quella intitolata alle libertà sessuali per dare corpo a tale rivolta. Nel fluviale e labirintico romanzo “Gli strumenti delle tenebre”, Anthony Burgess fa invocare al protagonista, lo scrittore omosessuale Kenneth Marchal Toomey, una “trasformazione del cristianesimo” in cui “i due dèi si fondessero in uno. Il Dio che mi creò malato e il Dio che mi ordina di essere sano. (…) Il Dio della mia natura e il Dio della mia moralità ortodossa”.
Fatta salva la grana letteraria non proprio fina, potrebbe averlo scritto Marchal Toomey che “Le persone omosessuali hanno doti e qualità da offrire alla comunità cristiana”. Ancora lui potrebbe essersi chiesto “Siamo in grado di accogliere queste persone, garantendo loro uno spazio di fraternità nelle nostre comunità?”. Invece, sono parole di vescovi e cardinali a cui non si può perdonare l’uso equivoco del concetto di natura comprensibile nell’urlo senza risposta di un romanziere omosessuale. L’essenza dell’uomo, la natura, precede la persona, ha vincoli e doveri che sopravanzano i diritti dell’individuo, non dipende dalle pulsioni dell’istinto ma da regole razionali che presiedono anche la moralità. Non è invocando l’accordo tra due dèi diversi ed entrambi malvagi, uno della legge e l’altro degli istinti, che l’uomo trova la propria unità. Qualunque sia la sua condizione, l’uomo trova quiete solo riconoscendo la saggezza dell’unico Dio, buono e ragionevole, in cui tutto ha origine e compimento.
Quello del personaggio creato da Burgess non è un equivoco nuovo sotto cielo cristiano. Nel IV secolo Evagrio Pontico diceva nel “De diversis malignis cogitationibus” che “il pensiero demoniaco acceca l’occhio sinistro dell’anima, quello che si dedica alla contemplazione del creato”. Questo, aggiungeva negli “Scholia in Psalmos”, produce una “errata conoscenza della cose stesse o della loro contemplazione, e l’accusa al Creatore di essere ingiusto e non sapiente”. Dunque, toccherebbe all’uomo porre rimedio a una creazione imperfetta attraverso atti misericordiosi che sanino le ferite provocate da una legge dura e ingiusta che condanna invece di salvare.
E’ la buona novella del “Chi sono io per giudicare?”, dell’ospedale da campo in cui i medici non vanno per il sottile, del pascolo in cui il pastore si accontenta di avere lo stesso odore delle pecore. E’ la chiesa che, in nome di papa Francesco e senza mai essere smentita, durante il Sinodo sulla famiglia ha portato in luce la spaccatura che pietosamente per decenni era stata celata. Una chiesa che fa tremare pensando al momento del “Roma locuta”.
Pur gradita al mondo, una chiesa simile difficilmente potrà sanarne le ferite poiché nasconde l’origine della malattia, il peccato. Tolta l’impellenza della conversione e della rinuncia a satana, l’uno e l’altra finiscono per incontrasi in un accidioso convivio sotto il segno del demone meridiano, quel sortilegio in cui si vive solo per compiacersi del proprio malessere. Ma non è colpa del mondo, povera preda di un male che solo l’incisione affilata e incandescente del verbo cristiano sapeva curare chiamandolo con il suo nome. Nella guerra che la chiesa gli muoveva per la sua salvezza, trovava almeno una vena di linfa vitale. Ora, nella pace, non la scorge più, eppure ne ha sete, molto più che della misericordiosa condiscendenza. Ma il cristianesimo mondano, quello delle “scelte pastorali coraggiose” non ha più di questa acqua. Così il secolo, che coltiva nel suo intimo il desiderio di sentirsi peccatore pur negando l’idea del peccato, si trova smarrito davanti a cristiani che non si sentono peccatori perché quell’idea l’hanno dimenticata.
La voglia matta di mondo che oggi non esita a mostrarsi anche nei sacri consessi ha cominciato a fiorire nei giardini segreti delle anime quando i cristiani hanno preso a coltivare i fiori malati dei piccoli reati contro Dio e li hanno concimati con il compiacimento per la propria fragilità. “Quelli che commettono spesso peccati leggeri” ammoniva San Gregorio Magno “non devono considerare la qualità dei loro peccati, ma la loro quantità. Se non li impensierisce la gravità, li spaventerà il numero. (…) chi trascura di piangere e schivare i peccati leggeri cadrà non già di colpo, ma un po’ alla volta, dallo stato di giustizia a quello mortale”.
Il calendario liturgico è un rosario fiorito di santi che hanno fatto della loro vita la lotta anche alla più piccole delle offese a Dio. Fin sul limitare degli Anni Sessanta del secolo scorso, la vita ascetica del fedele ordinario aveva a modello esempi come San Domenico Savio, che avrebbe preferito morire piuttosto che macchiarsi di una sola colpa lieve. La formazione spirituale era fondata sull’alternativa radicale tra salvezza e dannazione eterne e generava pensieri, parole e opere che oggi il mondo vorrebbe tanto ammirare nei cristiani che, invece, ne sono atterriti. Pensieri, parole e opere, per esempio, come quelli che Sant’Ambrogio depose nell’eloquente “De bono mortis”, il bene della morte: “E l’Ecclesiate dice ancora ‘il mio cuore è andato in giro affinché io potessi conoscere la gioia dell’empio e considerassi e cercassi la sapienza e la moderazione, e conoscessi la felicità attraverso il comando, nonché i travagli e gli avvilimenti, e conobbi questa felicità come più amara della morte’: questo non perché la morte sia in sé amara, ma poiché lo è per l’empio. E’ infatti peggio vivere per il peccato che morire nel peccato, poiché quanto più a lungo l’empio vive, tanto più aumenterà il suo peccato, ma se muore cessa di peccare”.
Generazioni di cristiani si sono formate lungo i secoli su questo tema ascetico. Nobili destinati allo splendore delle corti e capaci di portare i cilici sotto vesti da fiaba, contadini, operai e mendici a cui facevano da cilicio i panni e la fatica quotidiani. Tutti animati dallo stesso fervore, segnati dalla stessa luce catturata negli interni del Caravaggio, nel sorriso delle Madonne di Raffaello, nell’immobilità delle scene di Piero della Francesca, negli azzurri di Giotto o negli ori di certe icone dipinte nelle aurore russe. Ma anche il più spirituale dei capolavori, riesce a descrivere solo in piccola parte ciò che il fervore e la purezza producono nelle creature. “Primieramente” scrive Pietro Giacomo Bacci nella biografia di San Filippo Neri “il verginal candore era tale che gli risplendeva anche nel volto, ed in particolare negli occhi: i quali aveva eziandio negli ultimi anni della sua vita, come di giovanetto, così chiari e risplendenti, che non si è trovato mai pittore che gli abbia mai potuti ben esprimere con il pennello, ancorché molti con ogni diligenza vi abbiano provato; non si poteva in oltre così facilmente fissar la vista nella sua faccia; avvegnacché se gli vedeva uscir dagli occhi come una luce che ripercoteva negli occhi di chi lo mirava; sicché alcuni han detto che solamente in guardarlo sembrava un angelo di paradiso”.
Quando usavano ancora dire il buon breviario, i cattolici davano forma liturgica alla necessità di porsi al rifugio dalle colpe anche veniali negli splendidi inni risalenti all’epoca ambrosiana. A ciascuna ora canonica il suo, a seconda di ciò travaglia le anime in quel frangente della giornata. “Lingua refrénans témpert” recita la seconda strofa dell’ora Prima, quando l’astro del giorno è già sorto, “Ne litis horror ínsonet: visum fovéndo cóntegat, ne vanitátes háuriat”, Dio moderi e freni la lingua, affinché non risuoni l’orrore delle liti, custodisca e contenga lo sguardo perché non raccolga alcuna vanità. E a Compieta, subito dopo l’esame di coscienza e il “Confiteor” in cui chiede perdono a Dio onnipotente, alla beata Maria sempre Vergine, a San Michele Arcangelo, a San Giovanni Battista, ai santi apostoli Pietro e Paolo, a tutti i santi e fino all’ultimo dei fratelli, l’orante invoca il soccorso divino in vista del sonno: “Procul recédant somnia, et nóctium phantásmata; hostémque nostrum cómprime, ne polluántur córpora”, fuggano lontano da noi i sogni e i fantasmi della notte, reprimi il nostro nemico affinché il nostro corpo non sia macchiato.
Il cristiano che spia lussuriosamente il mondo, invece, ha finito per convincersi che la fede non sia vera se non si accompagna al dubbio. Un credente autentico, insegnano i pastori che si riconoscono nelle nuove aperture sinodali, deve assaporare dentro di sé l’esistenza dell’ateo: per essere santi bisogna essere anche grandi peccatori. Così, il peccato viene presentato in una nuova e “coraggiosa” valutazione pastorale, assume il nome malaticcio e fascinoso di “fragilità”, scava nelle anime, si fa coccolare e monopolizza la vita e il pensiero, la prassi e la dottrina.
In tal modo, il cerchio si chiude su un panorama in cui fede e ragione hanno intrinsecamente bisogno del negativo: l’errore diventa un valore per la gnoselogia, l’eresia per la dottrina, il peccato per la morale. Non è un caso se uno dei personaggi più luminosi della letteratura come la Lucia dei “Promessi sposi”, esemplare incarnazione letteraria del fervore, è divenuta incomprensibile ai cattolici contemporanei. C.S. Lewis aveva previsto tale esito nelle “Lettere di Berlicche”. Era solo il 1942 quando narrava le istruzioni del diavolo Berlicche al nipote Malacoda, comandato a pilotare la perdizione di un neoconvertito: “In una settimana o due gli metterai il dubbio che forse nei primi giorni della sua vita cristiana egli era un pochino eccessivo. Parlagli della ‘moderazione in tutto’. Se ti riuscirà di condurlo al punto di pensare che ‘la religione, sì, va bene, ma fino a un certo punto’, potrai sentirti felicissimo nei riguardi della sua anima. Per noi una religione moderata vale quanto una religione nulla, ed è più divertente”.
Ma Berlicche e Malacoda, appunto, non erano padri sinodali.
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fonte: Il Foglio, 21 ottobre 2014

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