Piccolo catechismo del sedevacantismo
di
Dominicus
Questo articolo
è stato pubblicato sul n° 79 (inverno 2011-2012) della
rivista Le Sel de la Terre - Intelligence de la foi -
Rivista trimestrale di dottrina tomista a servizio della Tradizione
La rivista, curata da
Padri Domenicani collegati alla Fraternità
Sacerdotale San Pio X, è una pubblicazione cattolica di scienze
religiose e di cultura cristiana, posta sotto il patronato di San
Tommaso d’Aquino, in forza della sicurezza della dottrina e della
chiarezza d’espressione del “Dottore Angelico”. Essa si colloca nel
quadro della battaglia per la Tradizione iniziata da Mons.
Marcel Lefebvre e si presenta in maniera tale da potersi rivolgere ad
ogni cattolico che voglia approfondire la propria fede.
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Articolo tratto da: http://www.unavox.it/ArtDiversi/DIV378_Catechismo_Sedevacantismo.html
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Una prima edizione di questo piccolo catechismo è stata
pubblicata nel n° 36 di Le Sel
de la Terre. Questa seconda
edizione, rivista e notevolmente aumentata, tiene conto dei dibattiti e
delle obiezioni sollevate dalla prima.
Introduzione:
tra Scilla e Cariddi
Nella zona di Messina, tra la Sicilia e l’Italia, vi sono due
formidabili barriere: Scilla e Cariddi. Per fare la traversata è
necessario evitare entrambe le insidie. Molti navigatori imprudenti o
sprovveduti, volendo evitare l’una, hanno fatto naufragio sull’altra:
sono finiti da Scilla a Cariddi.
Attualmente, di fronte alla crisi nella Chiesa, vi sono due errori da
evitare: il modernismo (che a poco a poco ci fa perdere la fede) e il
sedevacantismo (che tende allo scisma). Se vogliamo rimanere cattolici
bisogna passare tra l’eresia e lo scisma, tra Scilla e Cariddi.
In questo «piccolo catechismo», noi affrontiamo una delle
due insidie, ma non bisogna dimenticare l’altra: col pretesto di
evitare i pericoli del sedevacantismo, non bisogna minimizzare i
pericoli del modernismo, veicolato dalla Chiesa conciliare.
La posizione di Mons. Lefebvre
La posizione che esporremo qui è quella di Mons. Lefebvre, la
stessa che noi, ad Avrillé, abbiamo sempre difeso.
Eccone un breve riassunto:
1) Mons. Lefebvre si è posto la domanda pubblicamente:
Noi ci troviamo
veramente al cospetto di un dilemma enormemente grave che, io credo,
non si è mai presentato nella Chiesa. Io penso che in tutta la
storia della Chiesa, non sia mai accaduto che colui che siede sul
Soglio di Pietro abbia partecipato a dei culti di falsi dei (Pasqua
1986). Se qualcuno dice che il Papa è apostata, eretico,
scismatico, secondo l’opinione probabile dei teologi (se è vera)
egli non sarebbe più Papa e quindi noi ci troveremmo nella
situazione di «Sede vacante». È un’opinione. Io non
dico che essa non possa avere degli argomenti a favore, delle
possibilità (18 marzo 1977). Non è
impossibile che questa ipotesi un giorno venga confermata dalla Chiesa,
poiché ha di per sé delle serie argomentazioni. In
effetti, sono numerosi gli atti di Paolo VI che, se compiuti da un
vescovo o da un teologo, in questi vent’anni, sarebbero stati
condannati come sospetti d’eresia, come favorenti l’eresia (24
febbraio 1977).
2) Tuttavia, dopo aver riflettuto, egli ha preferito la soluzione
contraria:
Ma io non penso che
questa sia la soluzione che dobbiamo assumere, che dobbiamo seguire.
Per il momento, personalmente penso che sarebbe un errore seguire una
tale ipotesi (18 marzo 1977). Ma ciò
nonostante, questo non vuol dire che io sia assolutamente certo di aver
ragione con la posizione che assumo; io mi dispongo in maniera
prudenziale. Più che nel dominio puramente teologico, puramente
teorico, io mi colloco nel dominio prudenziale. Quando le cose sono
molto difficili e molto delicate, io penso che il Buon Dio ci chiede di
avere, non solo le idee chiare dal punto di vista puramente teorico e
teologico, ma anche dal punto di vista pratico, e ci chiede di agire
con una certa saggezza, con una certa prudenza, che può sembrare
un po’ in contrasto con certi principi, e di non essere di una logica
assoluta (5 ottobre 1978). Dal momento che io non
ho l’evidenza che il Papa non sia il Papa, allora io presumo che lo
sia. Non dico che non possano esserci degli argomenti che in certi casi
possano metterlo in dubbio, ma bisogna avere l’evidenza che non si
tratti solo di un dubbio, di un dubbio valido. Se l’argomento è
dubbio, non possono derivarne delle conseguenze enormi! (16
gennaio 1979). Le
Fraternità Sacerdotale non accetta [questa] soluzione, ma, sulla
base della storia della Chiesa e della dottrina dei teologi, pensa che
il Papa possa favorire la rovina della Chiesa, scegliendo e lasciando
agire dei cattivi collaboratori, firmando dei decreti che non impegnano
la sua infallibilità, talvolta anche per sua stessa ammissione,
e che causano un danno considerevole alla Chiesa. Per la Chiesa, niente
è più pericoloso dei papi liberali, che si trovano in una
continua incoerenza (13 settembre 1982). Nella pratica, la cosa
non ha influenza sul nostro comportamento pratico, perché noi
rigettiamo fermamente e coraggiosamente tutto ciò che è
contrario alla fede, senza chiederci da dove venga, senza chiederci chi
sia il colpevole (5 ottobre 1978).
Domande e risposte
Di che parliamo?
Che
cos’è il sedevacantismo?
Il sedevacantismo è
l’opinione di coloro che pensano che gli ultimi papi dopo il Concilio,
non siano dei veri papi. Di conseguenza, la sede di Pietro non sarebbe
occupata: cosa che in latino è indicata con l’espressione «Sede vacante».
Da dove
viene questa opinione?
Questa opinione è derivata
dalla gravissima crisi che è presente nella Chiesa a partire
dall’ultimo Concilio, crisi che Mons. Lefebvre chiamava giustamente la
«terza guerra mondiale». Questa crisi ha come causa
più grave il fallimento dei romani pontefici che insegnano o
permettono che si diffondano gli errori più gravi
sull’ecumenismo, la libertà religiosa, la collegialità,
ecc.
I sedevacantisti pensano che dei veri papi non potrebbero essere
responsabili di una tale crisi e quindi ritengono che questi non siano
dei «veri papi».
Può
spiegare brevemente in che consista questa crisi nella Chiesa?
Lo farò citando Don Gleize:
Quello che spiega di più
sono i discorsi pubblicati regolarmente nell’Osservatore Romano e che affermano continuamente il
principio della libertà religiosa, della laicità degli
Stati e dell’ecumenismo, principio che è in contraddizione
formale con l’insegnamento costante e unanime del magistero pontificio
di prima del Vaticano II […] Nel passato è potuto accadere che
dei papi non siano stati all’altezza della loro missione. Essi, una
volta o l’altra, sono potuti venir meno al loro ruolo di pastori,
mettendo in pericolo, più o meno grave, più o meno
diretto, l’unità della fede nella Santa Chiesa. Ma questa
attitudine si spiega con dei motivi di ordine essenzialmente morale.
Nessuno di questi papi è stato legato all’errore per convinzione
intellettuale. Essi hanno fallito senza un’adesione necessariamente
intellettuale all’errore, e questo è avvenuto sia per mancanza
di coraggio in mezzo alla persecuzione, com’è il caso di
Liberio, sia per una certa ingenuità o per eccesso di
conciliazione, come nel caso di Onorio e Vigilio, sia infine per una
sorta di intemperanza teologica, come nel caso di Giovanni XXII.
L’attitudine più grave di tutte, quella del Papa Onorio, ha
meritato la censura favens haeresim, e non ha comportato la condanna di
questo papa come eretico formale. […] Ma a fronte di questi casi
isolati, l’attitudine costante di tutti i papi successivi al concilio
Vaticano II, presenta un aspetto molto diverso. La predicazione
quotidiana dei sovrani pontefici è costantemente inficiata dai
falsi principi della libertà religiosa, dell’ecumenismo e della
collegialità. Sono degli errori gravi e sono la conseguenza
dell’«eresia del XX secolo», per riprendere l’espressione
di Jean Madiran, l’eresia del neo-modernismo. Errori costanti e
ripetuti, da Giovanni XXIII a Paolo VI a Benedetto XVI, errori che non
sono la conseguenza di una debolezza o di una ingenuità
passeggera, ma sono invece l’espressione di un’adesione forte
dell’intelligenza, l’affermazione di un convincimento attentamente
maturato. Ecco perché una tale situazione è esattamente
senza precedenti (Don Jean-Michel Gleize, Vu de haute, 14 (2008), p. 95-96).
Tutti i
sedevacantisti sono d’accordo tra loro?
No. Nient’affatto. Per riprendere
le parole di uno di essi:
I sedevacantisti sono dispersi
secondo almeno sei correnti:
-Vacanza totale – vacanza formale e permanenza materiale (tesi di Cassiciacum);
- Accettazioni delle consacrazioni senza mandato apostolico – rifiuto
di queste consacrazioni;
- Rigetto fuori dalla Chiesa di tutti quelli che non sono
sedevacantisti – rifiuto di un tale rigetto;
- Le leggi ecclesiastiche conservano la loro forza imperativa – le
leggi sono prive di forza esecutiva;
- Accettazione del principio di un conclave al di là dei
collegamenti romani – rifiuto di una tale possibilità;
- La vacanza dell’autorità data dalla more di Pio XII / da dopo
la Pacem in terris / da dopo
la morte di Giovanni XXIII / da dopo la proclamazione della
libertà religiosa ( 7 dicembre 1965) [E il nostro sedevancatista
ha dimenticato un’altra teoria: dopo la sostituzione di Paolo VI con un
sosia].
Questo ci fornisce, salvo errore, 160 possibilità. Ma ciò
che è comune a tutti i sedevacantisti è che pensano che
non si debba pregare pubblicamente per il Papa.
Gli argomenti dei sedevacantisti
Su quali
argomenti i sedevacantisti basano le loro teorie?
Su degli argomenti a priori e degli argomenti a posteriori.
A priori: essendo
eretico, il Papa non può essere vero papa. Cosa che si
può provare in maniera teologica (un eretico non può
essere capo della Chiesa… ora Giovanni Paolo II è eretico…
quindi…) o in maniera giuridica (le leggi della Chiesa invalidano
l’elezione di un eretico… ora il cardinale Wojtyla – o Ratzinger – al
momento dell’elezione era eretico… dunque).
Ancora a priori: il
«papa» attuale, essendo stato consacrato vescovo col nuovo
rito di consacrazione episcopale, inventato da Paolo VI, non è
vescovo… Ora, per essere papa bisogna essere vescovo di Roma… dunque….
A posteriori: si
constata che degli atti posti dai papi sono cattivi o erronei, mentre
invece dovrebbero essere coperti dall’infallibilità. Dunque
questi papi non sono veramente papi.
L’argomento
teologico dell’eresia del Papa
Non è
vero che un papa che diventa eretico perde il pontificato?
San Roberto Bellarmino dice che
un papa che diventasse eretico in maniera formale e manifesta, perderebbe il
pontificato. Perché questo si applichi a Giovanni Paolo II,
è necessario che egli sia eretico formale, cioè che rifiuti
coscientemente il magistero della Chiesa; e che questa eresia formale
sia manifesta agli occhi di
tutti. Ma se i papi successivi a Paolo VI, e soprattutto Giovanni Paolo
II (1),
presentano molto spesso delle affermazioni eretiche o che portano
all’eresia, non è facile dimostrare che essi sono coscienti di
rigettare un dogma della Chiesa. Fin quando non si abbia una prova
certa, è più prudente astenersi dal giudizio. Era questo
il modo d’agire di Mons. Lefebvre.
Un cattolico
che fosse convinto che Giovanni Paolo II è eretico in maniera
formale e manifesta, dovrebbe concludere che non è più
papa?
No, perché secondo
l’opinione «comune» (Suarez), cioè «più
nota» (Billuart), i teologi pensano che anche un papa eretico
possa continuare ad esercitare il papato. Perché egli perda la
sua giurisdizione, è necessaria una dichiarazione dei vescovi
cattolici (soli giudici della fede per volontà divina, al di
fuori del Papa) che constati l’eresia del Papa (2).
«Secondo l’opinione più comune, Cristo, con una
provvidenza particolare per il bene comune e la tranquillità
della Chiesa, continua a conferire la giurisdizione ad un pontefice
perfino manifestamente eretico, fino a quando non sia dichiarato eretico manifesto dalla
Chiesa» (Billuart, De Fide,
diss. V, a. III, §3, ob. 2).
Ora, in una materia così grave non è prudente andare
contro l’opinione comune.
Ma
com’è possibile che un eretico, che non è più
membro della Chiesa, possa esserne il capo?
Il Padre Garrigou-Lagrange,
basandosi su Billuart, nel suo trattato De Verbo incarnato (p. 232), spiega
come un papa eretico, pur non essendo membro della Chiesa, possa
continuare ad esserne il capo. In effetti, ciò che è
impossibile nel caso di un capo fisico,
è possibile (pur essendo anormale) per un capo morale secondario. «Il motivo
è che, mentre un capo fisico non può esercitare
l’influenza sui membri senza ricevere l’influsso vitale dell’anima, un
capo morale, com’è il pontefice [romano], può esercitare
una giurisdizione sulla Chiesa anche se non riceve dall’anima della
Chiesa alcuna influenza di fede interna e di carità». In
breve, il Papa è costituito membro della Chiesa per la sua fede
personale, che può perdere, ma è il capo della Chiesa
visibile con la giurisdizione e il potere che possono rimanere in
concomitanza con un’eresia.
L’argomento canonico dell’eresia del Papa (3)
Che pensare
dell’argomento canonico?
I sedevacantisti si basano sulla
Costituzione Apostolica Cum ex
apostolatus di Papa Paolo IV (1555-1559). Ma degli studi validi
hanno dimostrato che questa Costituzione avrebbe perso la sua forza
giuridica (4). Ciò che resta valido
in questa Costituzione è il suo aspetto dogmatico, e di
conseguenza ad essa non i può far dire niente di più
dell’argomento teologico esaminato prima.
Tuttavia, il
Codice, nell’edizione di Gasparri (CIC cum fontium annotazione, Roma),
fa riferimento in nota alla Costituzione Cum ex apostolatus.
Queste note del Codice
nell’edizione di Gasparri, indicano le fonti del Codice, ma questo non
significa che tutte queste fonti siano ancora in vigore! Il Codice del
1917, al canone 6 (5°) dice che le pene che non sono richiamate nel
Codice, sono abrogate. Ora, la Costituzione Cum ex apostolatus era una legge
penale, poiché infliggeva la privazione di un ufficio
ecclesiastico e le pene che essa prevedeva non vengono riprese nel
Codice.
Vi è di più: anche prima del nuovo Codice, San Pio X
aveva abrogato la Costituzione di Paolo IV; nella sua Costituzione Vacante sede apostolica del 25
dicembre 1904, dichiara nulla ogni censura che possa togliere la
voce attiva o passiva ai cardinali del conclave. E il canone 160 del
Codice dichiara che l’elezione del Papa è regolata unicamente da
questa Costituzione di San Pio X.
La Costituzione di Pio XII dell’8 dicembre 1945, Vacantis Apostolicae Sedis, che ha
sostituito quella di San Pio X, riprende la stessa disposizione
sull’argomento: «Nessun cardinale può essere escluso in
alcun modo dall’elezione attiva e passiva del Sommo Pontefice,
né per pretesto alcuno, né a causa di scomunica, di
sospensione, di interdetto o altro impedimento ecclesiastico.
Rimuoviamo l’effetto di queste censure solo per questo genere di
elezione, mantenendo loro il loro vigore per tutto il resto»
(n° 34).
L’argomento della nullità della
consacrazione episcopale del Papa (5)
Certi
sedevacantisti arguiscono che l’attuale papa è stato consacrato
vescovo col nuovo rito inventato da Paolo VI, rito che essi ritengono
invalido; così che Benedetto XVI non sarebbe vescovo e né
tampoco papa.
Il nuovo rituale per la
consacrazione episcopale è tratto da una preghiera che si trova
nella Tradizione apostolica di Sant’Ippolito, che daterebbe dai primi
del III secolo. Anche se questa datazione è probabile, essa non
è ammessa da tutti: certuni pensano che si tratti di una
«compilazione anonima contenente elementi di date diverse».
Quanto a Sant’Ippolito, si pensa che egli sia stato antipapa per un po’
di tempo, prima riconciliarsi col Papa San Ponziano, al momento del
loro comune martirio (en 235). Da questa stessa opera deriva il canone
secondo della nuova Messa.
Tuttavia, questa preghiera di consacrazione è ripresa, con
alcune varianti, in due riti orientali, il rito copto, in uso in
Egitto, e il rito siriano occidentale, usato specialmente dai maroniti.
È stato quindi adottato dai riformatori post-conciliari per
manifestare l’unità delle tradizioni dei tre grandi patriarcati:
Roma, Alessandria, Antiochia. In ragione di questa prossimità
con due riti cattolici, non si può affermare che la preghiera di
Paolo VI sia invalida.
È
vero che il nuovo rito di Paolo VI si avvicina al rito anglicano che
è stato dichiarato invalido da Leone XIII?
È vero che il rito di
Paolo VI si avvicina al rito anglicano, ma non al rito condannato da
Leone XIII. Dopo la condanna delle ordinazioni anglicane emessa da
Leone XIII, la chiesa anglicana e quella episcopale hanno introdotto
anch’esse una nuova preghiera di consacrazione, ripresa da
Sant’Ippolito, allo scopo di avere un rito accettabile dai cattolici.
Gli
argomenti a posteriori
I
sedevacantisti, non ritengono di trovare una conferma della loro
opinione negli errori del Concilio e nella nocività delle leggi
liturgiche e canoniche della Chiesa conciliare?
In effetti, i sedevacantisti
pensano generalmente che l’insegnamento del Concilio avrebbe dovuto
essere coperto dall’infallibilità del magistero ordinario
universale (MOU), e quindi non avrebbe dovuto contenere errori. Ma, dal
momento che ci sono degli errori, per esempio sulla questione della
libertà religiosa, essi ne deducono che in quel momento Paolo VI
aveva cessato di essere papa (6).
In realtà, se si accettasse questo ragionamento, bisognerebbe
dire che in quel momento era sparita tutta la Chiesa cattolica e che
«le porte dell’inferno avevano prevalso contro di essa»,
perché l’insegnamento del magistero ordinario universale
è quello di tutti i vescovi, di tutta la Chiesa docente.
È più semplice pensare che l’insegnamento del Concilio e
della Chiesa conciliare non sia coperto dall’infallibilità del
magistero ordinario universale, per le ragioni spiegate nell’articolo
su «L’autorità del
Concilio», pubblicato in Le
Sel de la Terre n° 35 (inverno 2000-2001).
Può
riassumere l’essenziale di questa argomentazione?
La ragione principale per la
quale l’insegnamento conciliare sulla libertà religiosa (per
esempio) non è coperto dal MOU, è che il magistero
conciliare non si presenta come insegnante delle verità da
credere o da tenere in maniera ferma e definitiva (7).
L’insegnamento conciliare non si presenta più come
«necessario alla salvezza»; cosa che è logica
poiché coloro che lo professano, pensano che ci possa salvare
anche senza la fede cattolica. Non essendo imposto con autorità,
questo insegnamento non è coperto dall’infallibilità. Lo
stesso si può dire delle leggi liturgiche (la nuova Messa, le
nuove canonizzazioni…) e canoniche (il nuovo Codice di Diritto
Canonico) promulgate dagli ultimi papi: esse non sono coperte
dall’infallibilità, benché normalmente avrebbero dovuto
esserlo (8).
La tesi di Cassiciacum (9)
Può
spiegare che cosa significhi essere papa «materialiter»?
La principale difficoltà
del sedevacantismo sta nello spiegare come la Chiesa possa continuare
ad esistere in maniera visibile (poiché essa ha ricevuto da
Nostro Signore la promessa di durare fino alla fine del mondo) pur
essendo priva del capo.
I sostenitori della tesi detta «di Cassiciacum» hanno
inventato una soluzione sottile: il Papa attuale è stato eletto
validamente per essere papa, ma egli non può ricevere
l’autorità papale, perché in lui vi è un ostacolo
(l’assenza dell’intenzione abituale di procurare il bene della Chiesa).
Egli è papa materialiter,
ma non formaliter.
Può
spiegare in dettaglio l’argomentazione di questa tesi?
Ecco l’argomentazione, come
è stata riassunta da un sacerdote che la professa:
- Il punto di partenza è
un’induzione: l’insieme degli atti di Paolo VI (che allora sedeva sul
Soglio a Roma) concorrono alla distruzione della religione cattolica e
alla sua sostituzione con la religione dell’uomo, sottoforma di un
protestantesimo larvato. Da qui si giunge alla certezza che Paolo VI
non ha l’intenzione di procurare il bene/fine della Chiesa, che
è Gesù Cristo plenum
gratiae et veritatis.
- L’intenzione abituale di procurare il bene della Chiesa è
condizione necessaria (la disposizione ultima) perché un
soggetto eletto papa riceva la comunicazione dell’autorità
pontificia che lo fa essere con Gesù Cristo e gli fa assumere il
ruolo di suo vicario sulla terra.
- Di conseguenza, Paolo VI è sprovvisto di ogni autorità
pontificia, egli non è papa formaliter,
non è vicario di Gesù Cristo. In una parola non è
papa (10).
- Cosa che impone di affermare che, se Paolo VI non è papa formaliter, lo rimane comunque materialiter, come semplice
soggetto eletto, assiso sul Soglio pontificio, né papa,
né antipapa.
Ma questa
soluzione, risolve le contraddizioni del sedevacantismo
«puro»?
Essa non risolve la
difficoltà principale del sedevacantismo: come può
continuare ad essere visibile la Chiesa? Per certi sostenitori della
tesi non v’è più alcuna gerarchia («le nomine dei
cardinali e dei vescovi sono degli atti della giurisdizione pontificia,
che è assente e che niente può rimpiazzarla»). Per
altri, il Papa materialiter
avrebbe il potere (come?) di costituire una gerarchia materialiter. Ma una tale
gerarchia, privata della sua «forma», non è la
gerarchia visibile della Chiesa (come la gerarchia ortodossa non
è la gerarchia della Chiesa).
Peraltro, questa teoria fa sorgere delle nuove difficoltà,
almeno per quelli che dicono che il Papa materialiter avrebbe il potere di
costituire una gerarchia materialiter,
poiché essa presuppone che il Papa materialiter, privo di
autorità, avrebbe quanto meno abbastanza autorità da
cambiare le leggi per l’elezione pontificia.
Che pensare
dell’argomento su cui poggia questa soluzione?
Questa soluzione non è
fondata sulla Tradizione. I teologi (Cajetano, San Roberto Bellarmino,
Giovanni di San Tommaso, ecc.) hanno esaminato la possibilità di
un papa eretico, ma nessuno, prima del Concilio, aveva immaginato
questa teoria dell’«assenza di intenzione abituale di procurare
il bene della Chiesa», che formerebbe un «obex» (impedimento) a
ricevere l’«essere con Cristo», forma del papato.
Essa giuoca sull’ambiguità del termine «intenzione».
I sostenitori della tesi riconoscono che l’intenzione dev’essere nella
persona del Papa («questa intenzione è la disposizione ultima del soggetto
per ricevere la comunicazione dell’autorità pontificia»),
ma al tempo stesso essi affermano che non si tratta dell’intenzione
personale del Papa. Possiamo essere d’accordo con loro quando dicono
che i papi recenti nuocciono al bene comune della Chiesa – ed è
quello che fonda precisamente lo stato di necessità (11) – ma
rimane da provare che sia veramente questa l’intenzione personale dei papi e poi che una
tale intenzione li privi dell’autorità.
La questione dell’«una cum» (12)
I
sedecavantisti, non hanno ragione di rifiutarsi di pronunciare il nome
del Papa nel corso della Messa, per rendere manifesto che non sono in
comunione con (una cum) un eretico (almeno materiale) e con le sue
eresie?
L’espressione «una cum» nel canone della
Messa non significa che si sia «in comunione» con la
persona del Papa e le sue idee erronee, ma che si vuole pregare per la
Chiesa e «per» il Papa. Per assicurarsene, oltre ai dotti
studi prodotti sull’argomento, basta leggere la rubrica del Messale per
il caso in cui il celebrante sia un vescovo. In questo caso, il vescovo
deve pregare per la Chiesa «una
cum […] me indigno servo tuo»,
cosa che non significa che egli prega «in unione con se stesso,
indegno tuo servo» (cosa che non avrebbe senso), ma che prega
«anche per me stesso, indegno tuo servo».
Che ne pensa
San Tommaso d’Aquino?
San Tommaso d’ Aquino, nella Summa teologica, quando commenta le
preghiere della Messa (III, q. 83, a. 4, corpus), equipara l’«una cum» all’«et pro»:
Quindi
il sacerdote segretamente [all’inizio del canone] ricorda innanzi tutto
coloro per i quali viene offerto questo sacrificio, cioè la
Chiesa universale, “coloro che sono costituiti in autorità”
[sia il Papa, sia il vescovo, sia il re] e in modo speciale le persone “che offrono
o per le quali viene offerto il sacrificio” [il memento dei vivi).
Ma San
Tommaso non dice che nel canone non si deve pregare per gli eretici?
San Tommaso non vieta di pregare
per gli eretici, ma constata semplicemente che, nelle preghiere del
canone della Messa, si prega per coloro di cui il Signore conosce la
fede ed ha prova dell’attaccamento (quorum
tibi fides cognita est et nota devotio) (III, q. 79, a. 7, ad
2). Infatti egli dice che perché il sacrificio ottenga il suo
effetto (effectum habet)
occorre che coloro per i quali si prega siano «uniti alla
passione di Cristo con la fede e la carità». Ma con questo
egli non vieta di pregare per una persona non cattolica. Questa
preghiera non avrà la stessa efficacia di quella per un
cattolico e non è prevista nel canone. Da questa affermazione di
San Tommaso d’Aquino, tutto quello che si può dedurre è
che se il Papa è eretico (cosa che è ancora da provare)
la preghiera per lui non ha l’effetto previsto, «non habet effectum».
Conclusione
Quale
conclusione si può trarre da queste discussioni?
Non è opportuno dichiarare
che «il Papa non è più papa» (materialmente o
formalmente), in nome di una «opinione teologica».
Sull’argomento rinviamo d un interessante articolo del Pade Hurtaud,
pubblicato nella Rivista Tomista
(13).
L’autore dimostra che Savonarola pensava che Alessandro VI fosse stato
eletto in maniera simoniaca e che per questo motivo non fosse papa.
Tuttavia, dal momento che un’elezione simoniaca era solo un’opinione,
Savonarola chiedeva la convocazione di un concilio in cui si sarebbe
prodotta la prova che Alessandro VI non avesse più la fede
cattolica ed è in questo modo che si sarebbe constatato che egli
aveva perso la giurisdizione suprema.
In
conclusione, che bisogna pensare del sedevacantismo?
Si tratta di una opinione che non
è provata a livello speculativo ed è un’imprudenza
sostenerla sul piano pratico (imprudenza che può avere delle
conseguenze molto gravi, si pensi in particolare a coloro che si
privano dei sacramenti col preteso che non trovano un sacerdote con la
loro stessa «opinione»). È per questo che Mons.
Lefebvre non si è mai impegnato in questo campo ed ha
perfino vietato ai sacerdoti della Fraternità di professare il
sedevacantismo. Noi dobbiamo fidarci della sua prudenza e del suo senso
teologico.
NOTE
1
- Il professore Johannes Dörmann ha cercato di dimostrare, in
quattro volumi molto dettagliati, che il Papa Giovanni Paolo II
professava la credenza nella redenzione universale. Le recensioni di
questi volumi sono state pubblicate in
Le Sel de la Terre nn° 5, 16,
33 e 46. Una traduzione commentata del terzo volume è stata
pubblicata in Le Sel de la Terre nn° 49, 50, 51 e 52. – Quanto al
Papa attuale, diversi studi hanno dimostrato che i suoi scritti
contengono degli errori gravi (si vedano in particolare quelli di Mons.
Tissier de Mallerais:
Il
Mistero della Redenzione secondo Benedetto XVI (
Le Sel de la Terre, n° 67, p.
22; e
La
Fede in pericolo per la Ragione (
Le
Sel de la Terre n° 69, p. 10). Questi due studi sono stati
riuniti nel volume
La strana
teologia di Benedetto XVI, Ed. Ichthys, Albano Laziale, 2012. –
Anche dei non cattolici si pongono il problema della fede del papa
attuale. Si veda per esempio: MATTHEW VOGAN,
Does the Pope believe in the Resurrection?,
nel giornale della libera chiesa presbiteriana di Scozia,
The Free Presbyterian Magazine del
settembre 2010.
2
- Il libro di Arnaldo Xavier da Silveira,
La
nuova Messa di Paolo VI, spesso considerato come riferimento
sulla questione del «papa eretico», a nostro avviso
presenta l’opinione dei teologi (Savonarola, Cajetano, Cano, Crmelitani
di Salamanca, Giovanni di San Tommaso, Suarez, Billuart, Journet, ecc.)
in maniera imperfetta. Journet dice che le analisi sul punto, di
Cajetano e di Giovanni di San Tommaso, sono più penetranti di
quelle di San Roberto Bellarmino. La questione sarebbe da riprendere
integralmente.
3
- Per maggiori dettagli su questa domanda, si veda l’articolo del Padre
Alberto O. P., in
Le Sel de la Terre
n° 33 (estate 2000), pp. 67-78.
4 - Lo riconoscono anche dei sacerdoti
sedevacantisti: «Non si può utilizzare la bolla di Paolo
IV per provare che attualmente la Sede apostolica sia vacante, ma solo
per provare la possibilità che questo possa accadere…»
(Don Francesco Ricossa,
Sodalitium n° 36,
maggio-giugno 1994, pp. 57-58, nota 1).
5
- Per maggiori dettagli su questo argomento si veda la studio
Sont-ils évêques?,
pubblicato dalle Editions du Sel, o l’articolo pubblicato su
Le Sel de le Terre, n° 54, pp.
72-129.
6
- Argomentazione del Padre B.: - 1. Il Magistero universale del
Pontefice romano, solo o con i vescovi riuniti con lui in concilio,
è infallibile. - 2. Ora, Paolo VI, solo e in concilio, ha
esercitato secondo tutte le apparenze un tale magistero; Giovanni Paolo
II , che ne proseguì l’opera, fece ugualmente. – 3. Secondo
tutte le apparenze, quindi, il loro insegnamento è infallibile.
– 4. Ora, nel contenuto di ciò che insegnano o prescrivono per
la Chiesa universale, vi è contraddizione con la dottrina
definita anteriormente in maniera irreformabile. – 5. Posto che la
proposizione 1 è di fede, si impone la seguente conclusione:
l’insegnamento del Vaticano II, promulgato e applicato da Paolo VI e
confermato a Giovanni Paolo II, non è l’insegnamento della
Chiesa, così che né paolo VI, né Giovanni Paolo II
possono essere riconosciuti come papi.
7
- Questa carenza del magistero conciliare, che gli impedisce di
insegnare infallibilmente, è lungamente spiegata negli articoli
di Don Calderon, pubblicati in
Le
Sel de la Terre (nn° 47, 55 e 60) e nel libro
Autorité et réception du
concile Vatican II, Actes du 4° Symposium de théologie de
Paris, Parigi, 2006.
8
- Su questa questione si può vedere l’articolo di DON CALDERON,
Infallibilité des canonisations et
des lois universelles, in
Le
Sel de la Terre, n° 72, p. 36.
9
- Per una più ampia discussione sull’argomento, vi veda
Le Sel de la Terre, n° 41, pp.
235-242.
10 - I suoi atti sono dunque sprovvisti di ogni
autorità, sia magisteriale sia canonica; si vede subito come non
sia impossibile che gli atti di Paolo VI siano contrari alla fede
cattolica e incompatibili con l’autorità pontificia, e
l’affermarlo non sigmifica affatto negare le prerogative di un papa, in
particolare la sua infallibilità e la sua giurisdizione
universale e immediata. – Tuttavia, questa prova non dice
alcunché della persona di Paolo VI, poiché l’intenzione
che non gli si riconosce non è quella personale (
finis operantis, che è fuori
causa), ma quella oggettiva, che è abitualmente immanente a suoi
atti (
finis operis). Questo
dunque non permette di affermare che Paolo VI sia personalmente fuori
dalla Chiesa cattolica, in ragione del peccato di eresia o di scisma.
(Nota del difensore della «tesi»).
11
- «Perché vi sia stato di necessità, è
necessario e sufficiente che il bene comune della fede cattolica non
sia più considerato dalle autorità come l’oggetto di un
semplice attaccamento personale. Ora, è proprio questo che
vediamo nel governo dei papi Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Il motu
proprio
Ecclesia Dei adflicta (1988)
e poi il motu proprio
Summorum
pontificum (2007),
considerano il libero uso della liturgia tradizionale come una semplice
alternativa facoltativa, alla quale si può ricorrere in maniera
straordinaria, ma che non deve rimettere in questione l’acquisizione
della nuova liturgia e tanto meno gli insegnamenti e le riforme del
concilio Vaticano II. Ora, questa eredità del Vaticano II e
della riforma liturgica è la negazione stessa del bene comune
dell’unità ecclesiastica (Don Gleize,
Vu de Haut, n° 14 – 2008 – pp.
101-102).
12
- Per una più ampia discussione sull’argomento, si veda
Le Sel de la Terre, n° 37, pp.
240-249.
13
- PADRE HURTAUD, «Lettres de Savonarole…», in
Rivista Tomista,1899, pp. 631-674.